Antologia critica > Tommaso Trini

Le pitture di Mario Raciti innescano nell’osservatore un processo fantasmatico. Ciò non vuol dire che sulle sue tele si vedano fantasmi, al contrario è proprio dell’attività fantasmatica, in quanto produce irrealtà su basi di partenza perfettamente concrete e reali, di muoversi tra dati se non comuni per lo meno accertabili: saranno, infatti, dati pretestuosi. Serviranno a dare energia al movimento abbastanza circolare dell’immaginario che ad un certo momento della sua evoluzione si riproduce da solo, come un’orbita nel vuoto.

Non fantasmi, dunque, ma materie, cose, scarti. Ogni quadro di Raciti sembra comporsi di un movimento di irrefrenabile caduta in cui, galleggiando e torcendosi con lento moto sospeso, ascendono immagini e allusioni. I dati concreti sono forniti dal colore, dalla spazialità e dalla luce. Un’elencazione certamente approssimativa, questa, che però trae ragione dalla forte peculiarità con cui il nostro pittore usa questi dati, anzi li combatte; non so certo spiegarne il perché, però rilevo una buona dose di conflittualità tra il trattamento che Raciti fa del colore, dello spazio e della luminosità, e la loro persistenza sulla superficie della tela: direi, la loro esistenza, o meglio la loro sopravvivenza. Che dipenda dalla forte conflittualità di Raciti verso i limiti della superficie, della pittura di superficie? o della pittura?

Noterò ancora, prima di addentrarmi in tali elementi, che le pitture di Raciti permettono, se non addirittura attirano, quella che si usa definire una lettura formale. Poiché c’è un fondo oscuro e chiarissimo insieme, poiché l’autore ammette “aspirazioni che possano coagulare col mistero”, come ha scritto, poiché insomma la caduta e l’ascensione interna d’ogni tela presuppongono un altro da sé, un ebbro altro da sé, non c’è nulla di meglio, per cominciare, di attenersi alla superficie. Quindi, al contrario di quanto ripetono i suoi critici, Raciti può meglio far brillare lo zaffiro della pittura d’immaginario che vuole, il diamante della vorticosa dialettica simbolica cui mira, proprio attraverso lo scrutinio di una buona lente da tagliatore di pietre. Lo ammette d’altronde lui stesso quando discute della sua pittura, che riconosce basata su movimenti di antinomie, o quando titola invariabilmente le sue pitture col conflitto di “presenza-assenza”. Quale più fattiva antinomia di una corretta lettura formale esercitata sulla vertigine della visione?

Raccontare di una “lettera rubata” e nascosta sotto gli occhi è facile, forse. Ma che dire di un pittore che volesse dipingere, e dunque mostrandola, l’equivalente di una “lettera rubata” alla Poe?

L’astrazione fortemente simbolistica e tacitamente visionaria di Raciti si propone, appunto, io credo, di nascondere questa “lettera rubata” che però, lo sapremo alla fine, sta sotto i nostri occhi.

Essa è la superficie. La pittura di Raciti è il messaggio inscritto su questa lettera. Quando parliamo di superficie noi siamo soliti d’intendere sia una proprietà sia un luogo; la superficie è, si sa, la proprietà di base che ha fornito l’autonomia alla natura della pittura e di conseguenza l’autonomia alla funzione dell’arte; la superficie inoltre è uno spazio bidimensionale in cui allogano certe possibilità ed altre possibilità non possono esistere, pena l’illusione – per cui, giustamente, noi riconosciamo oggi, dopo cent’anni o presso a poco di astrazione e poi di astrattismo, che la pittura e la superficie sono il luogo profondo dell’illusione sia ottica sia mentale più vicina alla resa della conoscenza.

Ciò non è più sufficiente. Dopo l’epoca delle avanguardie, da Duchamp a Reinhardt, e dopo la fine delle avanguardie, ancora da Duchamp e Reinhardt, la superficie è concepibile come una modalità del discorso pittorico: modalità, griglia, struttura di un “gioco”. Da tempo ripetevo come la moderna pittura fosse l’analogo di un gioco di scacchi: poche regole auree, pochissimi elementi, molte regole base dal passato, il tutto per un’infinita possibilità di strategia. La prosaica rinuncia all’arte di Duchamp non è mai esistita: giocava a scacchi come sostituto di una pittura che non poteva più godere. Un’idea simile, anzi eguale, ho ritrovato poi negli scritti di Matisse; segno che la pittura-come-scacchi è un’immagine bonaria oltre che comune. Ebbene, cosa avviene con gli scacchi, oltre all’infinita possibilità strategica d’ogni sua partita? Avviene, in sostanza, che il giocatore di scacchi vive una sola stagione, sia pure lunga, entro un mondo sostanzialmente incapace di giocare agli scacchi. Lo stesso può dirsi della pittura. La pittura così come la sua storia hanno “campioni”, per così dire, che vivono una sola stagione fortemente disciplinata, e poi perdono ogni fede in un mondo moderno che non sa avere fede nella pittura, né l’ha mai avuta, a dir vero.

In tali condizioni epocali, Raciti opera la sua intensa stagione in modo eterodosso rispetto alle pratiche pittoriche correnti. Anzitutto, dipinge per discorsi, non per figure (fossero pure quelle della logica formale): e il suo discorso risale molto addietro, al non detto o non storicizzato del linguaggio del romanticismo, risalendovi per poi dare maggiore slancio ad un presente, questo sì “rubato” e nascosto, che io vedo pronunciarsi dai buchi di luce di queste tele.

È stato giustamente detto che Raciti “scrive” la sua tela: ossia, io direi, ordina, come nella scrittura, un discorso mediante i pochi elementi che la pittura consente di spostare sopra la superficie, anzi entro la strategia non finita della superficie. Il colore, Raciti lo sospende quasi a parete e direzione dello spazio profondo, che in lui è sempre un altrove, uno spazio lontano; ma, come si sa per le stelle, ogni altrove è compresente qui e adesso grazie alla luce che a noi ne proviene. Raciti ci indica il mistero: più esattamente ci indica la presenza di questo altrove lontano che noi desideriamo non solo conoscere ma anche misurare, ce ne indica la presenza e le dimensioni. Tale mi sembra il suo procedimento. È poi proprietà divisibile di ciascuno, quella di decifrare lo “scritto” di Raciti, e di abitarvi con agio.

(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Galleria Editalia Qui Arte Contemporanea, Roma, 1979)