Antologia critica > Stefano Crespi

Con quella percezione diretta, interna che hanno gli scritti degli artisti, si potrebbe richiamare un testo non recente di Mario Raciti che apre alle cifre della sua pittura: ne chiarisce le istanze, le modalità espressive, le spinte tematiche. Ciò che con forza di intuizione veniva ribadito era la fine del concetto di filosofia, l’esaurirsi del pensiero “fondazionale”, la dissoluzione della corrispondenza fra linguaggio e mondo: “Tanto più la coscienza si richiama al profondo, tanto più assume una carica destrutturante”. L’arte veniva a trasmigrare dalle forme storiche del divino, dalle architetture del pensiero (del romanzo, di un “racconto”) a un divenire nei conflitti tra notte e giorno, luce e ombra, gesto e scrittura, materia e segno: tra il “bianco nullificante” e la frase infinita.

Nell’arte e nella letteratura, da punti di vista più diversi, ricorre frequentemente la nozione di “luogo”, di spazio ritagliato nell’indistinto della realtà o del nulla. Per una visione quasi parabolica di fine secolo, il “luogo”, il “vero luogo”, lo “stesso luogo” erigono confini, tracciano il limite di uno spazio. Qui possono accendersi le ultime luci declinanti dell’umanesimo (“un lume acceso sopra un tavolo, o il viso di un bambino addormentato”, è il sentimento del luogo suggerito da Yves Bonnefoy). O possono ritrovarsi le derive, metaforiche stazioni dell’abbandono, pause della storia, dove la malinconia convive con le sue incongrue simbologie. O in un orizzonte post-moderno, luogo è anche la scena degli oggetti che non rinviano ad alcun enigma, non sono evento o messa in opera della verità, paghi della loro lucida quotidianità.

Ciò che forse caratterizza, come spinta unitaria, la presenza artistica di Raciti è il rifiuto del luogo consolatorio, storico, fenomenologico. La sede del poeta è “là dove non c’è dio”. La pittura arriva alla dialettica estrema nel mettere in causa se stessa. Sovverte i codici istituzionali dell’immagine, della rappresentazione. Esprime i ritmi sincopati della musica, dice il “taciuto” della parola. Infrange gli specifici della pittura, del disegno, del colore in una orchestrazione imprevedibile rispetto alla norma, al programma, al corpo, alle sue appartenenze (il colore viene usato come disegno, il disegno come pittura, l’unità della pittura come il movimento di una frase musicale).

Proprio in ragione di questo movimento interno (spinta del desiderio, potenzialità segnica, di scarto, di cambio di registro) pertinente appare l’approccio nei moduli espressionistici. La tensione originaria delle varianti espressionistiche è la frattura fra linguaggio e realtà, fra linguaggio e mondo. Da qui l’indecifrabilità: il mondo, la sua fisionomia, le parvenze si rifiutano a una rappresentazione naturalistica o proiettiva. Si frantuma la possibilità del linguaggio di ordinare il mondo nei codici della lingua. Si libera il senso acuto della coscienza che percepisce l’allarme del vuoto, l’essenza tragica che trascorre non tanto nel gesto, nell’esplicitazione del “grido” distruttivo, nello scontro con l’attualità presente; quanto invece nelle interne simbologie, nelle allucinazioni, nelle dialettiche estreme.

Gianfranco Contini nella sua originale esplorazione nell’espressionismo letterario, nell’estensione storica e metaforica di questo termine, negli anticipi o prolungamenti, nello scardinarsi e relazionarsi delle forme espressive (dalla letteratura al cinema, alla musica), riconduce la nozione originaria e lata di espressionismo a una “deformazione sollecitata da un movimento”, a una “spazialità che includa il tempo”.

Il movimento, il tempo irritornabile, l’irresolvibilità sono le caratteristiche che presiedono all’espressione di Raciti. Non la sosta nel seducente o l’approdo in una forma di rapita bellezza, ma la perenne messa in crisi dell’immagine. Non ha sostato nella tentazione regressiva della materia, nel grembo materno (pre-linguistico) dell’informale; nemmeno ha accettato di dissolversi nel puro enigma del segno. Le tracce, i simboli, gli oggetti dei suoi quadri (sedie, mani, fiori, insetti, lune, aquiloni, ali, cieli, fiamme, capigliature) non si definiscono in cifre provvisorie e contingenti del reale. Tutto è sospinto dal desiderio, dall’eros, da un vento che emana da se stesso, sempre in fuga e sempre presente: quasi a stringere e a sorprendere la vita all’origine (negli strappi, nelle inversioni improvvise, negli “anacoluti”) e non nel procedere intemporale di paradigmi e declinazioni.

Soprattutto in questo caso, una lettura non riduttiva deve superare l’accostamento al singolo dipinto. L’artista stesso, quasi a non voler circoscriversi in una coatta definizione di spazio, di tema, di motivo, tende a proporre vaste sequenze. Ne è conferma la presente mostra con una sintomatica istanza di itinerario: Senza titolo degli anni Sessanta, Presenze-Assenze degli anni Settanta, e per gli anni più recenti le Mitologie. Non conta lo stato immobile di una frase; ma il flusso di una frase interminabile che si dilata, si complica, contraddice se stessa, ricerca varchi improvvisi.

Non la pittura dell’essere “qui” e “ora” che è vano; ma dell’essere né qui né ora, né ovunque, né mai. L’inizio è affine all’ultimo giorno; cancellati sono i colori mondani nella caparbia insonnia del giorno e della notte. Si scorrano attentamente le opere: si vedano le ombre che salgono a ghermire il quadro. Sono neri graffianti, ombre in agguato, prima che le cose, per un’ultima volta, siano trascinate nella “rapina del cosmo”.

Se è vero che il colore trattiene di più i richiami di natura rispetto alla velocità espressionistica del segno, si ha l’esemplificazione in mostra di un percorso (che corrisponde allo svolgimento di parabole artistiche e poetiche). Dalle prime iconografie più allusive, più stipate di segnali, più ricche nei campi di colore, a una sorta di grande metafora dove finiscono per contrapporsi per definitivo scontro il bianco bagliore del vuoto e il nero della scrittura, la pressione non abdicante della vita.

La critica che si è accostata alla storia di questa pittura ha variamente ribadito le correlazioni fra presenza e assenza, parvenze del “mundus imaginalis” e “non dove” dell’angelo rilkiano, eros e trascendenza. Allontanare ogni retorica dell’oggetto, spingere la pittura e i mezzi espressivi al moto essenziale per ritrovare l’archetipo dell’immagine, lo sguardo del mondo, la qualità affascinante e intangibile di rivelazione.

Può venire in soccorso la rilettura che Maurice Blanchot, ne La scrittura del disastro, dedica al mito di Narciso, ricuperato in una luce più vasta e comprensiva. Narciso è figura originaria ed emblematica di un’alterità, della scrittura, della finzione e del fascino mortale di essa. Blanchot più che sulla fascinazione dell’immagine, l’attrazione del vuoto, la lusinga dell’innamoramento, insiste sul disinganno di Narciso che non si riconosce nell’immagine della fonte. Viene dunque sottolineato non la soggettività romantica, proiettiva e regressiva; ma l’allarme della coscienza.

Con vasti referenti di cultura, l’opera di Raciti, che non brucia l’impulso creativo in un sapiente esercizio storicistico, o di stile, può essere ricuperata attraverso unitarie interpretazioni del profondo. A varie altezze cronologiche e antropologiche, cifre primordiali come la luna, il mare, la collina sono state raffigurazioni materne, femminili del mito dell’identità e dell’unità con il mondo (Virgilio, Leopardi).

Nella visita allo studio, quasi nel contrappunto di un nudo di Egon Schiele su un manifesto appeso alla parete, mi è venuto più diretto lo stimolo a soprendere in un trittico di Raciti, tra cancellazioni, strappi e riprese, il rinvio alla forma di un corpo femminile, come a una remota sedimentazione. Il quadro non tradisce la figura descrivendola; non sostituisce al rischio dell’ignoto il presente della misurabilità. Ma segnala la figura, la insegue, ne dice l’assenza.

In una concezione di unità umanistica, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa si animano di un “brivido simbolico” che consegna ogni luogo all’unicità dell’evento, dell’infanzia, della figura materna, dell’assolutezza del mito. Si è oggi frantumata la conoscenza del reale, disperso il miracolo dell’infanzia, dissolta la coscienza.

Tutto ciò è nella percezione di questa pittura che infrange i confini di naturalità del mito per preservarlo nei gorghi oscuri: una pittura che, in una sorta di musica dissonante, ha brevi intensità, scosse nervose, carezze sonore, silenzi, fruscii torbidi, leggeri, ossessivi. Non esiste una verità assoluta al di sopra del divenire del mondo. Non si può parlare di “follia” essendo venuto meno il punto di riferimento e quindi di discrimine rispetto all’insensatezza. Per la cultura occidentale la “verità” argina e domina il divenire; argina e domina il problema della “follia nascosta”. Che è insieme il problema della “verità nascosta”.

Al dominio verticale delle idee, delle categorie linguistiche, dei “valori” immobili si contrappone l’irriducibilità dell’arte, il rifiuto di proteggersi nelle parole “eterne”, per una capacità di attraversamento, di non lasciarsi arrestare fuori dal fluire del tempo. Nel disegno di Alberto Giacometti, più forte è la presenza di tratti, linee, tracce e meno consistente è la figura: la rappresentazione si assottiglia, si erode, si consuma, respinge lo spazio, non accetta la pesantezza del “corpo”. La pittura di Raciti sembra sul punto di svanire: attraversa invece l’insodabilità della pagina bianca, l’opacità della figura. Carica di tensione, eppure leggera, nello scatto improvviso di raggiungere l’illimitato.

Il bianco (altro segno unitario nella interpretazione della sua pittura) viene a coincidere, nella riflessione di oggi, con l’oltre la svolta linguistica. Un bianco libero dalla Legge, dall’Imitazione, dalla Natura. Per aderire (con Musil) a quella “immoralità” grandiosa e infinitamente delicata, che diventa commozione “morale” del mondo.

(Una “immoralità” grandiosa e infinitamente delicata, in catalogo della mostra personale, Galleria La Colomba, Lugano, 1991)