Antologia critica > Sandro Parmiggiani

Mario Raciti, La pittura dell'ignoto, Skira, Milano, 2010

occorre in primo luogo lasciar spuntare le forme, i colori, le parole, i toni e poi spiegarli.
occorre in primo luogo lasciar spuntare le gambe, le ali, le mani e poi lasciarle volare cantare formarsi manifestarsi.
io non faccio un programma preliminare come se si trattasse di un orario di un calcolo o di una guerra.
l’arte delle stelle, dei fiori, delle forme, dei colori appartiene all’infinito.

(manifesto millimetro infinito, 1938, in Jean Arp, Jours effeuillés: poèmes, essais, souvenirs, 1920-1965, Gallimard, Paris, 1966)

Cinquant’anni di esercizio della pittura, come questa mostra di Mario Raciti, e il catalogo che l’accompagna, documentano e testimoniano, sono un tempo lungo, il corpo di una vita. In verità, il fascino del disegno e della pittura aveva catturato Mario fin dall’infanzia, e solo i tortuosi percorsi delle umane esistenze spiegano certi approdi, solo all’apparenza tardivi, nel porto del proprio destino. Comunque, cinquant’anni sono fatti di infiniti giorni, e sono ancora più lunghi quando si svolgono all’insegna di una solitudine e di un silenzio di chi è ben consapevole di essere considerato “inattuale”, collocandosi fuori dal turbinio delle mode che inesorabili si susseguono e che sempre trovano interpreti e cantori appassionati. Eppure, pittori come Raciti, e altri che come lui hanno testardamente tenuto fede al limpido nucleo originario della propria ispirazione1, hanno attraversato quello che a volte può essergli parso un deserto inospitale, hanno dovuto misurarsi con venti e maree ostili: non molti sono stati i critici che hanno saputo vedere, pochi i mercanti e i collezionisti che hanno colto il valore e la durata di un’opera di così limpida poesia. Del resto, l’opera di Mario Raciti potrebbe proprio definirsi come “poesia in forma di pittura”: nei suoi dipinti i segni prendono forma, e i colori subitamente appaiono, si ravvivano o decadono, secondo ritmi, rime, “licenze”, apparizioni e nascondimenti, che sono propri delle misteriose regole interne alla poesia e alla musica. Le larve di forme, i segni che si distendono esili, ma che lacerano o guidano la visione, i colori intrisi di una luce diffusa, innervati di fasce di striature luminose o concentrati in più buie densità, evocano in noi qualcosa che mai assume un senso compiuto e definito – ci troviamo, spesso, di fronte a lacerti, non sempre ricomponibili, di un possibile, segreto significato –, ma che continuamente allude a qualcosa di inafferrabile, d’anticamente oscuro, un enigma che ci proietta in un luogo che solo nel sogno o nella esperienza della visione possiamo forse incontrare, un “altrove” mai compiutamente descritto. La presenza di questo ignoto che preme viene evocata per frammenti di segni e bave di forme, per accelerazioni febbrili ed esitazioni, tremori e apparenti balbettii di un segno che si fa sismografo della sensibilità dell’artista, per lampi di luce e incupimenti d’ombra, per corpi e fumi evanescenti di colore, liberamente galleggianti e fluttuanti nello spazio.

Una sommaria ricognizione del cinquantennale percorso dell’artista permette di cogliere gli elementi fondanti, l’intima coerenza di un’opera che s’avvale di un linguaggio peculiare, che nel tempo ha esplorato temi e motivi, ma che saldamente ha sempre girato attorno a un modo di intendere e di praticare la pittura che presto riconosciamo essere proprio di Raciti, del suo carattere di uomo e di pittore. Le opere che aprono l’esposizione già mostrano, in fondo, una visione pittorica definita e matura. Certo, la materia è più spessa, talvolta incisa, rispetto alle stesure degli anni successivi, ma alcuni dei colori (nero, azzurro, bianco, ocra) che Mario da sempre predilige già sono stati convocati sul supporto; il rapporto tra luci e ombre è ricercato e insistito (Illuminazione è il titolo di un dipinto del 1959, con il manto di bianco che sommerge, spegne e fa virare il colore sottostante), mentre la direzione e l’intensità del segno, le sue volute e i suoi salti, le tracce delle modalità di stendere il colore sono l’esordio di un alfabeto pittorico che lentamente si andrà costruendo e arricchendo su queste pur già solide basi. Con l’inizio degli anni Sessanta, nell’opera di Raciti s’apre un periodo di straordinaria felicità creativa: tuttora ci incantano i suoi disegni, i suoi ghirigori che paiono avere rubato la grazia e la facilità “inconsapevoli” delle stagioni dell’infanzia, quando la mano s’abbandona al piacere dello scorrere del segno, senza il remoto controllo di una mente che vigila e che giudica (i due Eden del 1962, con i frammenti di parti del corpo umano che fanno capolino ai margini di una campitura, come il sole che appare dietro una nuvola, sono tra le opere più alte, per equilibrio tra segno e colore, di questa prima stagione dell’artista, dipinti che non potrebbero essere ignorati in una ricognizione seria sulla pittura italiana e internazionale del periodo). Presto i contrasti dei toni s’accentuano; la matita inizia a scalfire la tenue stesura del colore, o ad essere talvolta esilmente ricoperta da una pennellata che tuttavia non ne elimina le tracce, e s’inventa percorsi e mappe di un mondo incantato, in cui forme e segni alternativamente convergono e divergono, in cui i sentieri si biforcano. È, quello di Raciti, un mondo che respira i principi e gli umori della fiaba e del sogno, di quel mitico “tesoro”, nascosto non si sa dove, che l’infanzia coltiva nel proprio intimo, arrivando poi a scoprire, nelle successive stagioni della vita, che forse il tesoro lo si potrà ritrovare se si tornerà a imparare ad abbandonarsi al puro piacere di una mano che s’incanta di fronte al proprio libero estro, di un occhio sgranato, aperto a ogni incontro e a ogni emozione, che naviga nel mondo, sempre pronto a coglierne le forme e i colori, dismettendo la sufficienza con cui si guarda alle cose che si crede di conoscere.

Su una sorta di montagna curva, ecco innalzarsi nel cielo, grazie al tracciato combinato della matita e del colore tagliente, antenne e teleferiche, mentre un faro sdoppia la sua forma nel fascio della luce che diffonde – qui, la memoria di Klee ci apre gli occhi su quale sia uno degli amori segreti di Raciti. S’accentuano la metamorfosi e la duplicità simbolica delle forme inventate dall’artista: in Dove e quando campeggia una sorta di orologio-bussola, con lancette incrociate che hanno le frecce a ciascuna delle loro due estremità, intorno al quale navigano altre forme di dubbia, molteplice interpretazione. I due Fari del 1965 proiettano, l’uno, un fascio di luce bianca e, l’altro, un cono di luce nera: opere di straordinaria suggestione, con i palloncini amaranto e azzurro – quest’ultimo reca un messaggio arrotolato e annodato in basso… – che s’alzano nel cielo, quasi a sondarne la profondità, con la pittura-poesia che qui dispiega il suo canto purissimo: le rime tra la forma delle isole su cui s’ergono i fari e quella dei coni di luce e d’ombra propagati, l’incanto assoluto dello scafo bianco e della vela nera, le vibrazioni cromatiche dentro un colore fremente di luci e di scie luminose. Attorno alla metà del decennio, il segno pare assumere un ruolo più invasivo rispetto al colore, come nella serie dei Cardinali e nella Storia del re, ma la pittura ritrova la propria capacità di sedurre attraverso la semplicità delle forme e l’armonia dei toni, in opere come Tunnel, Giostra, e il Faro, nel quale tessere di colore verde-azzurro vanno ad animare il fondo, presagio di una nuova, più complessa e misteriosa, esperienza dello spazio.

La successiva serie degli Spiritelli ci introduce in una dimensione cosmica, fatta di segmenti di astri, di lune, di aeree esistenze dell’altrove – qui viene spontaneo pensare agli abitatori celesti di Licini e ai sogni astrali di Miró –, di cuori baciati e di forme che recano in sé l’idea straniante di una esistenza che è, insieme, contrapposizione e replica. L’aperta allusione a un mondo cosmico è ormai del tutto evidente: quel che Raciti s’inventa pare replicare lo sguardo di un astronauta che s’incanta davanti a un mondo visto dal finestrino di un’astronave, e che scopre esistenze inaspettate – costellazioni, comete e astri che si portano addietro una sorta di cordone ombelicale, bandiere piantate su un cumulo all’orizzonte – con scritte e domande (Dove siete) sui confini e sull’insondabilità dello spazio che la matita stessa traccia sul corpo di un pianeta o nell’azzurro del cielo. Ne La fabbrica degli spiritelli Raciti ci svela la loro possibile genesi: entità che fuoriescono, assieme al fumo, da forni a forma di bottiglie, e che assumono le sembianze di eterei burattini che s’alzano in volo, senza peso e senza consistenza, mentre in Spiritelli con ectoplasma mette in scena una rappresentazione che pare evocare le atmosfere di Halloween; infine, in La testa tra le nuvole, è un pallone aerostatico in forma di nuvola nera che porta nelle profondità del cosmo un grumo rosso, frutto vivente di un cuore, di una passione.

Le Presenze-Assenze che vedono la luce all’inizio degli anni Settanta segnano una svolta piuttosto radicale nella pittura di Raciti. La scena del dipinto si decanta, le forme che la abitavano scompaiono o assumono aspetti di assai meno facile definizione, il colore e il segno semplificano la loro presenza, si concedono solo per accenni fugaci, per bagliori e ombre, per grumi di cupezza che navigano nella luce che tutto dissolve, con l’artista che pare darci conto di un immaginario in cui convivono e si manifestano lacerti di eventi che si esauriscono e si sfiniscono dentro il vuoto, il bianco liquido amniotico della superficie, come se non avessero la forza di manifestarsi compiutamente: siamo davanti a quelle che potremmo definire geografie dell’ignoto. Il processo di rarefazione che investe ogni componente del dipinto allude a un’esigenza di controllo, come se l’artista – peraltro in corrispondenza di una stagione artistica ben precisa nella storia dell’arte – sentisse l’esigenza di saggiare come si possa dire utilizzando il minimo delle parole: segno e colore si fanno enigmi muti, presenze larvali, trattenute, manifestazioni di cui subito non afferriamo un possibile senso narrativo. Segno e colore sono chiamati a dare vita al dipinto concedendosi al minimo, per brevi allusioni e slanci solitari; navigano in solitudine, s’incrociano e poi magari si perdono nel vuoto da cui hanno avuto misteriosa origine, dentro il quale, tuttavia, i ritmi e le rime si dispiegano e rifulgono con nitida, poetica evidenza. A volte, il segno si concede un po’ più a lungo sulla scena, ed ecco allora – come in Presenze-Assenze (p. 137) – prendere forma una figura liciniana, e in opere di grandi dimensioni – Presenze-Assenze del 1971 (pp. 138-139) –, delinearsi un luogo ignoto, custodito in uno spazio siderale, forse immerso in un’aurora boreale.

Alla metà degli anni Settanta, prende forma, nei dipinti di Raciti, una presenza definita, pur nella sua eterea consistenza: una sorta di vela quadrata, dai bordi sfrangiati come se avesse affrontato l’oltraggio di una tempesta o di un naufragio, sulla superficie della quale il segno non rinuncia a tracciare una sua involuta presenza, magari replicata con varianti più in basso, che non solo ci ricorda le vele delle imbarcazioni di Friedrich, ma che pare l’allusione al desiderio e alla memoria di un viaggio, pur non intravedendo comunque lo strumento per compierlo – si tratta, appunto, di una vela orfana dello scafo da muovere. In questi anni i dipinti di Raciti ritrovano il colore perduto; le campiture abbandonano progressivamente la loro definizione lieve, che poteva essere spazzata via da un refolo di vento, per acquisire una consistenza che definisce una ripartizione spaziale orizzontale, un sopra e un sotto su cui il segno non rinuncia a intervenire. Verso la fine del decennio, questa partizione ruota, diventa verticale, arriva a individuare ciò che se ne sta, rispettivamente, a sinistra e a destra di questo immaginario confine, di questa quinta che muove lo spazio, e gli riconsegna una rinnovata profondità, mentre il colore e il segno – ora non più affidato alla matita, ma esito della stessa pittura – assumono una complessità che pare indicarci il collocarsi di Raciti sul versante opposto dell’inizio degli anni Settanta, quando l’esigenza primaria sembrava quella della decantazione. L’artista dispiega, in questo spazio meno rarefatto, una nitida forza costruttiva, un addensamento e una maggiore complessità interna degli eventi pittorici. Insomma, se dieci anni prima Raciti aveva schiacciato il pedale delle “assenze”, limitandosi a cogliere qualche piccola, incerta manifestazione, ora vira decisamente verso il polo delle “presenze”, dando corpo a una nuova stagione della pittura, che ritrova il piacere di dispiegare le sue capacità per rappresentare un complesso intrico di spazi e piani, una selva di mondi che lentamente vanno ricollegandosi a certi esiti degli anni Sessanta, dai quali comunque sono scomparse quelle simpatiche figure (fari, antenne, spiritelli) che le abitavano. Il sogno pare avere mutato il suo campo d’esercizio: non più esseri incantati, apparente retaggio dell’infanzia, ma un mondo, misterioso e inquietante, di quinte e di piani che s’aprono su un deserto “altrove”, aereo e glaciale, più che mai ignoto e inconoscibile.

La porta che Raciti apre sugli anni Ottanta, con la ritrovata complessità delle sue Presenze-Assenze, presto assume una ancora più caratterizzata dimensione cosmico-spaziale, in cui la pittura stessa ritrova quella parte del suo vocabolario che nei primi anni Settanta era stata dismessa: velature insistite, intrecci di forme e di segni, contrasti di luce e di ombra. Ma gli anni Ottanta sono, per Raciti, soprattutto caratterizzati da un ciclo, quello delle Mitologie, cui l’artista inizia a lavorare un po’ prima della metà del decennio. Qui il pendolo torna a volgersi verso il polo della rarefazione e della decantazione, senza tuttavia mai raggiungere gli esiti dei primi anni Settanta. Il dipinto è navigato da scie di colore, che ricordano le “code” delle comete, e da addensamenti del segno-colore di forma tondeggiante, con sullo sfondo tracciati curvilinei che alludono al profilo di un pianeta lontano, mentre la luce invade e inonda uno spazio che torna a darsi un respiro largo, libero, avvolgente, adatto alla dimensione narrativa che l’artista intende darsi. Sappiamo quale sia il motivo generatore di questo ciclo – il fascino perenne che i miti, con il loro eternamente cangiante racconto, esercitano su Raciti, che allude in forma di pittura ad Icaro che s’avvicina al carro del sole, o a Giove che possiede Leda trasformandosi in cigno –, ma dobbiamo pure osservare che l’artista pare riprendere, ancora una volta, alcuni esiti formali e costruttivi della sua pittura degli anni Sessanta, con tuttavia un ruolo più accentuato del segno, che ora si dispone a sciame per dare forma alle sue visioni, e con stesure acquose del colore, velo che muove lo spazio, tensione a un bianco che è poi la somma di tutti i colori. Dentro questo ciclo, Raciti dà vita a polittici di particolare suggestione, in cui la visione si distende su una superficie che consente il dispiegarsi del racconto mitologico, il reiterarsi dei suoi motivi.

Il decennio che s’annuncia – quello degli anni Novanta – non registra subito mutamenti sostanziali nella pittura di Raciti, che comunque avvia un nuovo ciclo, quello dei Misteri. Lentamente ecco insediarsi, sulla superficie del dipinto, matasse e addensamenti di colore, che presto ritrova la sua intima ricchezza, sia nel dare vita alle presenze che ora si manifestano sia nei fondi da esse navigati. Nel bordo superiore o in quelli laterali, emerge, spesso per un frammento, una macchia scura, che pare volere insidiare la situazione che sulla superficie ci appare, oscura minaccia che perturba una quiete temporanea o svelamento dell’origine lontana dei frammenti cupi, sfrangiati o definiti, che vediamo nel corpo del dipinto – sappiamo che Raciti, in alcune di queste opere, s’immagina la navigazione di un sommergibile, nell’oscurità delle acque, con il suo periscopio che gli consente di vedere ciò che è altrove, fuori dall’elemento ignoto che l’avvolge.

Nei primi anni Duemila, i dipinti di Raciti registrano il ritorno del profilo curvilineo che si era manifestato prima negli anni Sessanta e poi in quelli Ottanta, nel corpo del quale ora s’insinuano cunei di luce e forme scure che paiono volarvi intorno – le curvature spaziali sembrano quelle che si potrebbero vedere dentro gli abissi del cosmo –, con il colore che ritrova forza espressiva e linfa, più non è alito e vento, ma carne che avvolge e che misura una profondità. A partire dalla metà del decennio, se non mutano i titoli delle opere – resta la definizione di Mistero –, cambia decisamente il loro volto e la loro struttura: forme e segni scheletrici, che s’ergono drammaticamente in uno spazio che va di nuovo decantandosi, con il colore che ancora una volta pare dileguarsi per lasciare campo alla forza espressiva di un segno ferito. Negli anni recenti, quelle forme allungate trovano un senso antico: le braccia del Cristo crocifisso alla Croce, con le mani nitidamente disegnate, fino a farsi volti, e con i chiodi, in esse conficcati, che le tengono avvinte al legno. Alcune opere hanno nel frattempo assunto il titolo di Why, che pare una pura alternativa linguistica, ma non di senso, a Mistero, ma che poi rivela la sua probabile origine ultima, quando la troviamo inscritta nel dipinto centrale del trittico che con tutta evidenza rievoca la scena del Cristo agonizzante tra i due ladroni. Del resto, “perché?” è il grido che Cristo leva quando sente di essere stato abbandonato, e può essere pure inteso come interrogativo sul senso conclusivo della sofferenza e del dolore. Gli arti del Cristo s’allungano nelle opere ultime, vagano ormai senza peso nello spazio, mentre cupi, minacciosi ammassi vi affiorano, in un nuovo alternarsi di presenza della pittura e di sua assenza – una evidente volontà di cancellazione, una consapevole rinuncia dell’artista a dire altro –, con, tuttavia, un ritorno alla speranza nell’ultimo dipinto della mostra e del catalogo. In Why (i fiori del profondo), Raciti rivisita il mito di Proserpina che esce dall’Ade per lanciare fiori sull’orbe terracqueo e comunicare con la figlia Cerere – bellezza che s’accende e viluppo d’angoscia e di senso, che pare dipanarsi e sciogliersi, quasi a significare che i giorni del dolore sono ineliminabili dall’esperienza umana, ma che sempre il domani può riservarci la speranza e i “momenti di essere” che parevano perduti.

La pittura di Raciti è un territorio complesso da attraversare – come abbiamo cercato di fare ripercorrendone gli esiti – dal quale lentamente affiorano lacerti visibili, involucri di giacimenti segreti, manifestazioni della memoria e dell’interiorità. Non ci sono solo, nei suoi dipinti, nel suo incessante girovagare segnico-cromatico, persistenze tenaci e ritorni di motivi e di modalità di intendere la costruzione spaziale, ma un continuo riproporsi di fatti pittorici che sono il vocabolario che lui si è dato per dire, per fare pittura. Pensiamo, per citare qualche solo esempio, alle braccia allungate del Cristo appeso alla Croce, che immediatamente ci ricordano le strade e le vie ferrate delle mappe “infantili” nei quadri degli anni Sessanta; i palloncini dell’infanzia che salivano in cielo poco meno di cinquant’anni fa sono ora i fiori che Proserpina offre alla terra, dopo essere riapparsi, in altre vesti simboliche, nel corso di tutti i decenni successivi; l’orizzonte curvo di un pianeta distante nello spazio – quello raffigurato con la linea retta è ovviamente a noi più vicino – riaffiora continuamente; e così potremmo a lungo continuare. Ciò ci conferma anche come quello che a noi può apparire esito fortuito e transeunte sgorghi invece da uno scrigno segreto, sia espressione salda di una poetica che vive di quel peculiare modo di intendere il segno e il colore. Del resto, dietro e dentro i cicli che abbiamo sommariamente rivisitato, si respira una cultura profonda. Raciti è pittore vero, autentico; nel suo segno e nelle sue forme non c’è soltanto il retaggio delle felici semplificazioni di Klee, del segno errante di Licini e degli incanti cosmici di Miró, come abbiamo avuto modo di accennare, ma vi si respira, magari solo per pure assonanze formali, la tenace idea del primato e della forza del segno – pur all’insegna di quell’erranza della mano così peculiare in Raciti, in cui anche il tratto dice l’impossibilità di una definizione, di una formula per sempre definite – che troviamo in Gorky, in Novelli, in Twombly. Oppure, se volessimo spingerci più indietro, possiamo rintracciarvi le suggestioni spaziali di Wildt – penso, in particolare, a certi disegni del 1916-1917 dello scultore milanese, con la Croce che attraversa diagonalmente l’opera – fino alla memoria del segno di Fontana, senza dimenticare come Giacometti interviene sull’immagine, prosciugandola e restringendola fino a renderla evanescente, attraverso un segno chiamato a dire la condizione perpetua delle cose, eternamente transitanti tra “l’essere e il non-essere”, come lui dice in una intervista del 19622. Questa idea, questa temperatura del segno in Raciti, sono del tutto affini alla sua concezione del colore, che in lui mai viene vissuto come istanza fisica, carnale, materica, ma come strumento di perenne allusione visionaria a un modo di essere e di pensare che contempla sempre il primato dell’anima, dell’interiorità. Potremmo aggiungere che Raciti si nutre pure di un rapporto quotidiano con la musica, di una frequentazione costante della letteratura della Mitteleuropa (in particolare, gli amatissimi Kafka, Rilke e Dostoevskij), di uno scavo dentro i segreti della psiche, con la luce che vi hanno gettato Freud, Jung, Bataille, Hillmann. Non ci sorprende, allora, scoprire, attraverso le sue opere, che, nei dipinti di Raciti, la ricerca dell’assoluto, del profondo e dell’ignoto si affida necessariamente alla fragilità e all’incertezza del segno e del colore.

Tutto appare in transito nelle opere di Raciti. La superficie del dipinto è l’arena di eventi, spesso solo accennati o allusi, che vi si svolgono dentro, ma anche la registrazione di echi, riflessi, sommovimenti che vi irrompono da fuori, che vi si proiettano per appendici (le forme insidiose che si mostrano appena ai bordi superiori o laterali delle opere negli anni Novanta). Il quadro è percorso da brividi di luci e d’ombre insediatesi e originatesi dentro l’opera, ma che sono anche il riverbero di qualcosa che se ne sta fuori. Sembra, questa esigenza di Raciti, affine al desiderio di cogliere l’impalpabile e l’invisibile di cui parlava Jesús Rafael Soto nel 1969: “Una superficie è solo un elemento, la parte visibile di una proposta che continua verso l’infinito, al di là del limite dalla tela.”3

Tutto appare di incerta comprensione nelle opere di Raciti, come se le cose si dessero, nella sua pittura, come manifestazioni, segrete germinazioni, respiri larghi e grovigli d’affanno, incupimenti e dissolvenze, di un fatto che forse è stato e che presto più non sarà, e come palpiti, umori, sommovimenti, trasalimenti che assumono una forma, e poi presto sono soggetti a una sorta di svaporamento, di disgregazione, indotti da un vento che spazza via queste esili creature, o da un sole lontano che le dissolve come se fossero nebbie dell’alba o del tramonto. Tutto, nella pittura di Raciti, esprime la tensione a cogliere qualcosa di inafferrabile e di irraggiungibile – quasi che l’artista avesse l’intima convinzione che l’illusione di tenere stretta una cosa di per sé finisce per corromperla e svilirla: ciò che ci appare è la rivelazione di una forma transeunte, di uno spettro che presto sarà inghiottito dal nulla. I dipinti di Raciti mettono in scena incerte manifestazioni di cose che si sottraggono, che si mostrano per lacerti, per segni sottili, per addensamenti, grumi, vapori – come avviene negli splendidi pastelli dell’artista, in cui il colore ritrova intensità e innervazioni luminose che affascinano. I segni hanno percorsi tortuosi, nascono dal nulla e nel nulla si perdono, sono esili e incerti, pur esprimendo la forza lacerante di un bisturi; le forme sono spesso sfilacciate, come se reggessero a fatica l’oppressione di ciò che sta loro intorno, e dunque si stessero lentamente sfrangiando in questi spazi eterei che pure dovrebbero, per loro intrinseca natura, essere impalpabili e lievi.

Sono abitati, i dipinti di Raciti, da matasse aeree, da grovigli d’ombra senza peso, che levitano, intrisi d’aria e di luce, da incupimenti che si contrappongono ai velari di colore: tutto, presto, potrebbe essere dissolto e sfumare nel nulla. Ogni cosa, nell’opera di Raciti, appare fugace e fuggevole, con gli stessi segni che a volte sono argine del colore, altre volte vi fanno da contrappunto o sono in aperta antitesi con esso. I segni tremuli della matita lacerano, scarnificano la visione, quelli più recenti della china – come nella serie ultima delle Crocifissioni – s’impongono, incidono la superficie, gridano la loro forza dirompente, separano e condensano. I colori sono acquosi, intrisi d’aria, indefiniti e inafferrabili, talvolta s’accendono, e spesso sono percorsi da brividi e fasce luminose, alternativamente manifestandosi come velari evanescenti, visioni e miraggi del deserto, o, in alcuni momenti del percorso dell’artista, come espressione di una profondità e di una densità insondabili, al di là delle quali se ne sta l’ignoto. Anche nel modo di tracciare il segno e di stendere il colore si percepisce che a Raciti non interessa certo riprodurre le sembianze di ciò che il suo occhio può vedere qui e ora, ma qualche cosa d’altro, che lui sente perennemente in cammino, in mutazione, in transito, di cui lui coglie solo un certo stadio del divenire. Raciti respinge con passione l’idea che lui, uomo immerso nelle contraddizioni del tempo presente, consapevole delle sue miserie e tragedie, pratichi una pittura che si colloca fuori dal tempo: “La pittura non può essere immediatamente politica, sociologia, filosofia; vive di metafore, e questo c’è nei miei dipinti: per me la modernità è dissidio e sintesi degli opposti, contrasto perenne, giacché con l’accumularsi delle conoscenze cadiamo in irresolutezze di verità.”

Tutto, nei dipinti di Raciti, è anelito a un mondo, a uno spazio, rimanda a una vita “altra”, fatta di costanti dicotomie e di contrapposizioni spaziali. Lo sono le Crocifissioni ultime; lo sono, negli anni Sessanta, le sonde e le teleferiche che salgono nell’etere dove l’aria è più rarefatta, e permettono di vedere il mondo dall’alto, e i tunnel che penetrano il ventre ignoto della terra; lo sono, negli anni Settanta e Ottanta, le ripartizioni spaziali determinate da quinte che aprono varchi verso mondi sconosciuti, abitati alternativamente da un buio che opprime o da una luce che cancella; lo sono, negli anni recenti, i dipinti che esplorano le silenti profondità del mare, navigate da sommergibili. L’incessante sfrangiarsi delle forme risponde, in Raciti, non solo all’idea di una pluralità di sensi – un’idea del tutto simile all’essenza del mito, che nel tempo assume svolgimenti diversi –, ma alla perenne fuggevolezza del reale, delle cose, sospese, come già si è detto per Giacometti, nel dubbio di una sparizione e di una risorgenza senza fine. Non casualmente i segni tracciati con la matita o con l’inchiostro di china, le superfici e gli sciami di colore di Raciti, sono apparizioni, scritture, nebbie, nuvole che prendono forma nel vuoto o nel profondo, in un’atmosfera che può evocare la memoria lontana del mare e del cielo, che, come ci avverte Aleksandr Sokurov, hanno una bellezza che nulla ha a che fare con le esistenze umane.

Esprimono, i dipinti di Raciti, una tensione alla libertà; le ragnatele e i palpiti di segni che vagano senza meta o si fanno contorcimenti, bozzoli d’angoscia, le stesure di un colore che si dà nelle due estremità di un velario pronto a dissolversi e di una profondità navigata da correnti, i vuoti e gli addensamenti, le luci e le ombre che lui evoca e allestisce sulla scena sono finestre, visioni di un viaggio ininterrotto verso l’ignoto e l’infinito. Raciti confessa che, dal momento in cui vide per la prima volta 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick4, spesso rivive l’angoscia indicibile, allora provata, di fronte all’uomo che s’allontana, senza peso e senza speranza, nello spazio. E tuttavia, già in Dove siete del 1966 (p. 123) siamo di fronte a una sorta di confine ultimo, non più rappresentabile, delle galassie. Questa incertezza della visione assume, in alcuni casi, sembianze che ci ricordano le atmosfere delle antiche stampe giapponesi o di un fortunato film recente (Avatar di James Cameron), in cui le cime degli alberi bucano la nebbia, o le nuvole, e ci chiediamo se essi abbiano le loro radici nel suolo della terra o in minuscoli pianeti, che non vediamo, sospesi nel vuoto – la stessa situazione straniante che si prova quando, ascendendo una montagna, ci si trova immersi in un’aria opaca, e più non si sa dire se ciò che ci avvolge sia nebbia o nuvola.

C’è, in tutte le opere di Raciti, un alludere, un evocare per indizi e lacerti, per alternanze di vuoti e di dettagli minuziosi, di silenzi, e di concitazioni e di concentrazioni del segno e del colore, a qualcosa che si dà come presenza incerta, e a qualcosa d’altro che, nella lontananza, continuamente si sottrae, pur originando echi e vibrazioni che entrano nel quadro, come se il dipinto fosse la soglia che separa il visibile e l’invisibile, ciò che manifesta un senso possibile e ciò che resta oscuro e inafferrabile. Interrogato sul dilemma tra astrazione e figurazione, Jean Paul Riopelle rispondeva: “astratto, questa parola vuole dire: venire da. Io vorrei che questo facesse ritorno a…”5. Anche Raciti ci mostra qualcosa che pare venire da un mondo lontano, non del tutto conosciuto, e che sembra essere in marcia verso un mondo “altro”, ancora più ignoto del primo. Si può anche tornare, dice un grande poeta come Giorgio Caproni, dove non si è mai stati, spettri.

Raciti ama, insieme, l’assenza e la presenza, la vicinanza e la distanza, la separazione e la fusione, l’epifania rivelatrice e la disgregazione che annienta, la seduzione e la minaccia che ambiguamente una forma, un segno, un colore suscitano. In questa duplicità, in questa contesa perenne tra ciò che è reale, o tale appare, e ciò che è fantasma, creazione della mente, in questa impossibilità a rappresentare se non per lacerti il reale e le ossessioni interiori, sta l’essenza della poetica di Raciti, quel suo inseguire ciò che Bonnard chiamava le “forme dell’ombra”6. Raciti stesso, del resto, confessa che ciò che per lui è più importante non è il reale, ma “quello che non vediamo, giacché tutto ciò che vediamo e tocchiamo è finito”: ecco le ragioni di una pittura che ininterrottamente tende verso l’altrove, che continua da cinquant’anni a cercare, forse addirittura nell’attesa inconfessata che il divino, dopo tanto silenzio, arrivi finalmente a manifestarsi.

1 Mi piace, tra i nomi che potrei citare, ricordare qui quello di un comune, a me e a Mario, carissimo amico, Pierluigi Lavagnino, che ci ha lasciati nel 1999.
2 Alberto Giacometti. Le dessin à l’œuvre, a cura di Agnes de la Beaumelle, catalogo della mostra, Gallimard- Centre Georges Pompidou, Paris, 2001, p. 159.
3 Jesús Rafael Soto, catalogo della mostra, Stedelijk Museum, Amsterdam, 1969.
4 2001: Odissea nello spazio è del 1968: l’impatto emotivo provocato dal film fu diffuso e profondo, in particolare per la verosimiglianza con cui viene descritta la vita nello spazio, in assenza di gravità, per la possibilità di navigare dentro il tempo, a ritroso e in avanti, fino a percorrere una sorta di viaggio circolare, e per la minaccia di una aperta ribellione dell’intelligenza artificiale nei confronti dell’uomo che l’ha creata.
5 Jean-Louis Prat, On ne fait qu’un pas dans la vie…, in Riopelle. Grands formats, Acquavella Contemporary Art, New York, 2009, p. 19.
6 Rémi Labrusse, Bonnard, quand il dessine, suivi de Bonnard, Mallarmé, L’Échoppe, Paris, 2006, p. 41.

(La pittura dell’ignoto, in Mario Raciti, La pittura dell’ignoto, Skira, Milano, 2010)