Antologia critica > Roberto Tassi

Resta sempre molto difficile collocare l’opera di un artista autentico entro il vasto paesaggio dei fenomeni che l’arte di continuo crea, entro la geografia accidentata che noi creiamo per comodità e per inerzia; tanto più difficile per un artista come Raciti il cui intento e la cui immagine si ribellano già programmaticamente ad ogni collocazione e sembrano cercar l’accordo o la consonanza più con le parole e le immagini dei poeti che con le figure, le luci e gli spazi dei pittori.

Ci fu un tempo il gorgo di Wols che provocava vertigini entro gli spazi dell’anima ed evocava trasparenze luminose e disperate entro i misteriori nuclei dello spirito; ci furono voli, notti, segreti, scavi, minuti scandagli, tessiture poetiche, sogni infiniti, di Klee; a volte anche trapassar di fantasmi sullo schermo interiore, di Kandinskij. Ci furono questi fari sublimi, alti sulle sconfinate pianure dello spirituale. Forse essi stanno, lontani, dietro la pittura di Raciti; forse; non so neanche se egli potrà riconoscerlo. Ma, poiché è sensibile, vorrà riconoscere dei grandi, lontani, padri di poesia. A me basta di aver evocato, con queste righe, il dominio dello spirituale, entro il quale credo che abiti l’opera che Raciti va quietamente accumulando e dipanando da alcuni anni.

E che risulta nuova poiché non si può dirla appartenente all’astrazione, che pure in certe sue zone condivide quel dominio; né si può dirla vicina all’indagine che il rapporto col naturale ha indicato ad artisti, di grande levatura, della sua e della precedente generazione; né legata alle trame enigmatiche del surrealismo, anche se ne conserva a volte qualche lacerto o minima traccia. Nella pittura di Raciti si aprono spazi arcani, spazi bianchi, di neve, di madreperla o di cerulea nebbia, spazi in cui la luce sprofonda e si dilata, in un’alba lontana, invernale, nuvolosa, quasi senza colori; gli spazi si susseguono, si intersecano, rimandano l’uno all’altro in una vertigine quasi insensata, quasi senza scopo, come avviene nei sogni, nelle rêveries e nelle poesie; non c’è prospettiva, non fuga di visuale, ma neanche parete, o recinzione; l’informale è assorbito, e superato, e dimenticato. Vele di luce, mobili riflessi, sottili lacerazioni, flussi di diafane correnti, attraversano l’immagine, la rendono instabile e levitante, incomprensibile e pur conosciuta, come un ricordo che non vuole affiorare alla coscienza.

Questa incertezza, che si trasforma subito in ambiguità, questo tentativo di forzare le barriere dell’inconscio, queste energie che si sentono premere e scorrere sotto la superficie dell’immagine, sono le fonti vere del suo arricchimento, del suo mistero e del suo ultimo significato. È come se la pittura di Raciti aprisse, con i suoi spazi successivi, successivamente spro­fondati, verso un ignoto, verso un orizzonte dell’immagine che rimane sconosciuto, vaga atmosfera, luce lontanissima, nebulosa di un’altra realtà; è un’apertura, anche, sull’infinito, come avevano visto solo i romantici, con la tragica perdizione, loro, che li trascinava spesso entro la follia. Non c’è però romanticismo nell’opera di Raciti, né perdizione in quell’antico e irripetibile senso drammatico; ma un’inquieta coscienza, l’accettazione di, e subito la fuga da, una realtà destituita; un tendere verso l’ignoto, sì, o verso l’indicibile, ma come se ci si arrivasse lungo una possibile via di salvezza, e questa via riuscisse sul nulla. Potrebbe esserci infatti nell’opera di Raciti un argomentare poetico sul nulla; e questa levità, questo volo, queste trasparenze, essere desolanti e vane più di un dramma dichiarato.

Si è fatta ora, quest’opera, ancor più rarefatta, lieve e spirituale, di una materia sottilmente filtrata dall’intelligenza e dalla passione, con segni che si infittiscono appena in certi grumi dello spazio, che tratteggiano pochi, isolati e deformati oggetti, apparsi come simboli magici o come simboli primari entro i movimenti delle forme; con colori che han perso l’originaria intensità, ma per un decantamento di materia, così che bianchi aleggiano sui bianchi, e i verdi tenui, gli azzurri delicati, i teneri rosa passano come un’ala o come un’onda sulle forme e si annidano tremuli a intensificare certe trame, ad accompagnare certe lacerazioni.

“In un territorio meno fratto, al lembo di quegli spazi dove il buio accede alla luce, la mia esperienza limite va ricavandosi un consapevole ambito mediano ove il giorno e la notte si fondono, senza un qui e un ora, nel chiarore di un’alba perenne”; così ha descritto la sua situazione, meglio di ogni altro, Raciti stesso, poco tempo fa. Ma queste luci ininterrotte, questo fugar le ombre, che pure qua e là continuano ad affacciarsi, o ad apparire, sotto forme inattese, non sono il raggiungimento di una purificazione, non la proposta di un ideale, né la fuga in un mondo favoloso o fantastico, ma ancora una desolata attesa; non sono una gioiosa certezza, ma una presenza e una continuità quasi di angoscia; sono la dolente, solitaria pittura poetica di Raciti.

(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Galleria Morone, Milano, 1983)