Antologia critica > Roberto Sanesi

“… senza ch’io possa dire da qual paese, da qual tempo – semplicemente forse da qual sogno – provenga…”: è con questa citazione proustiana che si apriva, nel 1967, una mia prima nota sulla pittura di Raciti, nella quale era il ruolo della memoria a prevalere, la sua funzione di “senza-tempo” che tende a ritagliarsi nello spazio un luogo di accadimenti ambigui (autentici, oggettivi, e insieme indefinibili), in un processo di allontanamento che agisce come immersione per acquisizione e restituzione – lì e altrove – di un “ciò che è stato” non perché passato ma perché fatto presente da un gesto, da una serie di segni, esattamente al momento in cui il gesto è compiuto e i segni tracciati, e che esattamente in quel momento ristabilisce una linea di confine, relegando di nuovo l’immagine ripresentificata nel suo luogo originario – un passato che per questa grazia di transitorio, lancinante recupero, sembra spingersi verso il futuro. Che oggetti, forme, segnali, immagini, frammenti, e si vorrebbe dire brividi, appaiano e scompaiano nella pittura di Raciti in una sorta di dialettica metafisico-emblematica pervasa da un’estatica liricità, alle soglie di una malinconia del tutto priva di compiacimenti, e anzi talvolta con qualche sospetto d’intenzioni ironiche, diverrà in seguito sempre più esplicito; caricandosi gli esiti, nell’accentuata libertà espressiva (fino ai limiti di un’esecuzione in apparenza del tutto indifferente al “finito”), di altre allusioni e componenti.

In bilico fra lo scribillo immediato, intuitivo, guizzante, e il controllo costruttivo più determinato e attento, questa pittura che a tratti raggiunge la scrittura, così come parrebbe preoccupata di separare dal bianco la bianchezza senza che la scissione sia mai percepibile (il che non è semplicemente un tentativo di separare da una forma oggettiva – ma della memoria, sempre – la propria essenza), così avverte che il proprio tema di fondo è la correlazione fra presenza e assenza, di cui insistentemente indaga il meccanismo. Presenza-assenza di cosa, di chi, e in che modo, e perché, più volte Raciti ha provato a dirlo anche a parole, giustamente evocando un concetto di spettralità: “Come si fa a capire cosa c’è dietro un velo o di cosa è fatto un fantasma? È un nome per così dire perché può celarne tanti altri, e tanti nomi insieme possono nominare nulla e nominare tutto”. E poiché malgrado la sua pittura e questi fogli in particolare siano assai lontani da atteggiamenti letterari (e però Raciti non ha mai temuto l’analogia letteraria), mi si consenta di citare senza ritegno ciò che il pittore stesso non esita ad assumere come possibile strumento di lettura: “pura accensione inferiore attorno al nulla”, scriveva Blanchot a proposito di poesia – e se anche, subito, lo spostamento conseguente in simili zone d’eterea purezza dovremmo considerarlo rischioso per quanto attiene alla pratica della parola, tradotto in termini di pittura il concetto assume altre e più sostanziose connotazioni. La tentazione rilkiana di rendere visibile l’invisibile, operazione per il poeta “indipendente dalla visibilità e tangibilità”, che traspare dai fogli teneri ma non tenui di Raciti perde qualsiasi carattere utopico. La correlazione presenza-assenza, l’ambigua coincidenza visibile-invisibile, anche là dove si intenda porre l’accento su ciò che non è (e l’assenza si dà comunque come presenza del proprio opposto, nel quale rispecchiandosi prende corpo) si offre allo sguardo, è visibile, mutata in forma. E se nei fogli di Raciti l’invisibile non risulta essere l’opposto del visibile, ma un’emersione, o dilatazione, del visibile, questo conferma che il suo esserci (la sua ragione d’essere) non è, o non è più, come appunto nella metafora del separare dal bianco la sua bianchezza, una pura essenza. Né la citazione di Proust (memoria e suo meccanismo di ripresentificazione) né la citazione di Rilke (energia evocativa di un sovramondo inattingibile, o altro versante della vita) evitano allo spettro evocato d’essere corpo ed emblema, oggetto e proiezione del corpo in una dimensione altra, spirituale, magica, ammaliante. C’è sempre un vago aereo sottile sentore d’esoterismo nella pittura di Raciti, e lo si può intuire nella frequente tripartizione dello spazio, nella convergenza delle linee di forza (segni, o piani) verso un punto centrale, nella struttura che tende a sovrapporre esterno e interno (psiche compresa) creando prospettive speculari. Senza, tuttavia, cedere a sublimazioni, a astrazioni. L’immaginazione è organica. Spesso le forme (trasparenti, o a collage) si insinuano nelle forme fino a costruirsi in spazi di tipo teatrale, si danno come quinte o fondali di un palcoscenico ribaltato (i piani orizzontali e verticali sono da percepire in parallelo, o come superficie unitaria), e dove una linea di demarcazione sia evidente la si intuisce come orizzonte terrestre, mentre l’effetto globale della “rappresentazione” è di un’intensa visionarietà edenica. Raramente tali luoghi sono dei vuoti, e caso mai ciò che vi recita sono “cose” (ma anche i luoghi sono cose, quelle cose) rappresentate indirettamente, messaggeri di “cose” non presenti. E siamo ancora alla memoria. Luoghi di minime e brulicanti apocalissi, luoghi della mente o del mito, gli spazi si popolano di tracce, di simboli, di oggetti più o meno identificabili – la sedia, le mani, il fiore, l’insetto, la luna, l’aquilone, ma soprattutto le ali. Una loro nominazione, precisando, non potrebbe che falsarne il senso. Di nuovo Rilke? Potrebbe essere. “Non molto tranquilli noi stiamo di casa / in una foresta di segni” si legge nella prima elegia duinese, e quei segni (parole, immagini) sono dominati anche nei fogli di Raciti da un aleggiare misterioso di angeli, quelle creature “in cui appare già perfetta la trasformazione del visibile nell’invisibile”. Il percorso di Raciti è insieme identico e opposto, in un archetipo di perdizione e caduta come eventi necessari a una riemersione – e tuttavia non ancora salvifica. Come si può dedurre da ombre inquietanti, da tentativi di aggregazione quasi gotica delle forme, da frammentazioni, strappi, dissociazioni, colature. Ciò che vi si agita è un desiderio. Ma a volte sono sufficienti le trasparenze, la delicatezza dei toni, e quel segno tremulo, infantile, innocente, che “allontana” ogni retorica dell’oggetto, mai negato, per rendere l’organico una fantasia dell’invisibile, e l’assenza un’epifania.

(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Studio d’Arte Annunciata, Milano, 1981)