Antologia critica > Renzo Modesti

Negli anni recenti certa giovane pittura ha dimostrato di volersi muovere con autonomia per vie che se intendevano riportare l’accento su talune lezioni metafisiche non per questo rinunziavano agli apporti dell’astrazione e dell’informale intesi come punti acquisiti e perciò stesso da superare.

La dialettica è stata viva anche se sotterranea, estranea cioè ai gesti e ai rumori consueti alle polemiche e tutta affidata alla validità, da riscontrare, delle opere. Un dato positivo, di scoperta onestà, non v’è dubbio, tanto più che questo modo nuovo di porsi davanti all’opera trascurava alcune affermazioni di comodo o di moda, come meglio si preferisce, sicuro passaporto per un rapido accoglimento nel mondo dell’ufficialità.

La base, il denominatore comune, può essere individuato nell’ansia di riapertura di un discorso, ansia di riorganizzazione e ricostruzione delle forme. L’atteggiamento, è chiaro, non poteva essere che mentale; l’attenzione non poteva appuntarsi che sui contenuti. La pittura, nella sua accezione tradizionale, doveva uscirne mortificata, ma di una mortificazione severa, simile, per certi aspetti, a quella del primo cubismo o di certa metafisica. Ed era naturale data la stretta analogia delle problematiche.

La pittura di Raciti vive in tale clima. L’uomo è colto, civile, stretto in un riserbo che può apparire timidezza; proviene dall’avvocatura ed è il caso di sottolineare la sua estrazione borghese e il suo desiderio, per un certo tempo, di assecondare le aspirazioni familiari soffocando una passione alla lunga impostasi come esigenza, necessità biologica; è, anche, lettore attento, accorto, impegnato. L’educazione pittorica non seguì le strade consuete. Gli avvii di Raciti sono, così, nell’ambito di una onesta linea lombarda, con echi e risonanze di facile individuazione. Il trasmutare e l’assestarsi su istanze nuove, maturazione spontanea di quella parentesi d’abbandono apparente, in realtà meditazione e riprova: riprova di validità di una vocazione e di una disponibilità.

Ed ecco l’autentico Raciti, con il suo impegno di uomo e di pittore. Un lirismo sottile, esistenziale, con tutti i tabù e le inibizioni conseguenti; un riorganizzarsi delle forme, un ricostruirsi dall’origine attento nell’accogliere le immagini, a non concedere al facile riapparire, alla tentazione egualmente rischiosa sia a destra sia a sinistra; il trapelare, a tratti, di una venatura garbata d’ironia. La condizione. Un modo di ributtare, ogni volta, l’esistenza sul tavolo, rivederla, rileggerla, in chiave emblematica. Gli oggetti, i simboli, lontanamente allusivi, sono dapprima timide, esili ossature poetiche, tutte affidate a una suggestione lirica. Poi il processo si fa più mentale, allo sfogo si sostituisce la necessità di dar corpo alle ossa, di costruire un più netto confine tra poesia e pittura.

Vorrei dire che Raciti si presenta, oggi, a questa svolta della sua evoluzione.

Il gioco dell’oca, il faro, l’orologio, il serpente, sono gli oggetti, le cose di una sua intima ricerca, di una sua ossessione che esige chiarificazione, che vuol essere guardata dentro, da vicino. Ed è qui che s’organizza l’armonia delle due componenti, la pittura e l’uomo, è qui che è giocoforza parlare di quella severità o castigatezza pittorica cui s’è, dianzi, accennato.

Non è necessario precisare, mi sembra, la dinamica di questa posizione, la sua possibilità di sviluppo, apertura e perciò la sua validità.

(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Galleria il Canale, Venezia, 1964)