Marco Panizza: Ho letto la tua biografia, e ho notato che dopo gli studi di giurisprudenza hai deciso di fare il pittore: questo suggerisce un discorso di necessità, di urgenza, di qualcosa che evidentemente era latente fin dai tuoi primi anni. Volevo partire da qui per sapere da te come è avvenuta questa scelta.
Mario Raciti: Ecco, hai detto una parola che mi sta molto a cuore: “necessità”. La pittura come “necessità” è forse qualcosa che oggi è un po’ in disuso dal momento che in molti casi la pittura è diventata un’attività come tante altre. C’è questo aspetto freddo che pervade le cose e mancano così certi tipi di pulsione. Per me l’idea di “necessità” è fondamentale, si tratta di necessità interiore, di kandinskiana memoria, un fatto cogente, un impulso irresistibile a cui non ci si può sottrarre. Il mio percorso giovanile è stato una sorta di volontà frustrata dagli eventi per arrivare alla pittura, fino a raggiungerla, alla fine, con molti sacrifici.
Hai fatto comunque bene a darmi questo spunto perché mi da la possibilità di mettere in chiaro questo: la pittura deve essere un qualche cosa che nasce con noi, è dentro di noi, fa parte dei nostri cromosomi, è fatta di pulsioni, di fatti profondi e non solamente di convenienze intellettuali, di cultura esterna, di fattori contingenti, come si deduce spesso da certe interviste à la page che di tanto in tanto mi capita di leggere.
M.P.: Rincorsa a mode, in questo senso, no?
M.R.: Certo.
M.P.: Un altro elemento che si intreccia con la tua pittura è la musica. So che sei melomane. Nei tuoi scritti citi Mahler, Schubert, Ligeti. Ce ne puoi parlare?
M.R.: Mi è rimasto impresso fin da giovane il momento in cui nel Tristano e Isotta di Wagner Tristano pronuncia le parole “odo io la luce”: ecco, questa trasposizione tra suono-colore, e viceversa, mi ha sempre intrigato moltissimo perché la musica è, come mi è capitato di dire in un’altra occasione, “astratta libidine primaria”. Questo significa che, ad un certo momento, il suono nasce in presa diretta con il nostro modo di volere esprimere dei sentimenti e non può tradursi in dati intermedi. L’istantaneità del sentire e del fare contemporaneamente mi ha sempre affascinato moltissimo più come automatismo interno che esibizione gestuale. Ecco allora che la musica rappresenta il “non plus ultra” di un fare diretto, al contrario la pittura è sempre mediata perché in un certo momento viene fuori l’aspetto dell’immagine che è croce e delizia della pittura stessa. Direi che l’astrazione è un “compromesso” davanti a un’immagine che vuole essere evocata e nello stesso tempo repressa per arrivare a esiti primari. Ecco, in quel momento di nuovo emerge l’attinenza pittura-musica ed è proprio per questa ragione che per me la musica è molto importante.
M.P.: Parliamo del clima culturale in cui hai maturato la tua pittura. Da quanto ho letto mi risulta difficile associarti a qualche corrente, a qualche preciso movimento. Nella tua biografia mi sembra di potere individuare due momenti importanti: l’incontro con i pittori del Salone Annunciata e, come tu hai avuto occasione di dire, il loro riferimento a Arshile Gorky, all’espressionismo astratto americano, e poi la mostra del 1970 a Mantova, che vedeva tra gli organizzatori Francesco Bartoli.
M.R.: Ho difficoltà a citare i miei antecedenti, tanto è vero che forse, un po’ inconsciamente, mi rifugio nel paradosso della musica citando come miei maestri alcuni musicisti. Vorrei rispondere però alla prima parte della tua domanda che mi interessa moltissimo perché, anche a me stesso, la mia formazione risulta, sotto un certo profilo, non molto chiara. Sono un po’ ribelle a situazioni costituite, per non dire precostituite, nel senso che non mi ci ritrovo, non mi ci sono mai ritrovato e ho anche una certa difficoltà ad avere dei compagni di cordata. Perché tutto questo? Me lo sono chiesto più volte, e mi sono detto che forse ciò dipende dalla mia formazione anomala che è legata in origine ad altri studi. Mi hai chiesto quanto possa avere pesato sul mio, il lavoro dei pittori che ho avuto modo di vedere al Salone Annunciata. In realtà io andavo furtivamente e con molta timidezza a vedere quelle mostre e non conoscevo nessuno di loro. Vorrei ricordare che eravamo negli anni Cinquanta, mentre il mio esordio come pittore astratto avviene nei primi anni Sessanta. È chiaro però che effettivamente sentivo fin da allora delle vicinanze, mi interessava molto quella voglia di “chiarore” un po’ lombardo e anche l’intrigo del segno filiforme e da qui il richiamo a Gorky, un americano che ha filtrato il surrealismo alla lontana. Certamente dietro la mia pittura c’è anche questo ma anche il simbolismo. Di questa corrente non si è mai parlato, eppure nel mio lavoro c’è una pregnanza di elementi emblematici di figuratività sia pure remota che può richiamare addirittura Gustav Klimt, Odilon Redon, ma lo dico così tra virgolette. Penso infatti che non esista assonanza formale tra pittura e pittura solo per il segno e il colore; bisogna invece scavare e vedere quello che c’è dentro, che si trova all’interno di una pittura, per riportarla a un’altra pittura che magari formalmente è del tutto diversa. Mi permetto di dire che questo oggi non fa parte dei canoni di lettura della critica perché si tende a interpretare molto formalmente anziché sostanzialmente. In questo senso, ad esempio, penso che alcuni aspetti di certa decadenza, con la “d” maiuscola, quella che, ad un certo momento, ha informato i due secoli a cavallo l’uno dell’altro, mi sia stata molto congeniale; non a caso nell’ambito musicale amo molto Mahler, che è fatto anche di dissonanze e di antinomie. Il valore della dissonanza è molto importante e non so quanto la pittura possa dare questo. Dietro il mio “lirismo”, come alcuni, con cui non concordo appieno, usano dire, mi pare ci sia proprio uno spiazzarsi della pittura rispetto a se stessa, un porsi degli interrogativi, un ribaltarsi. Fa parte di quei dissidi che vorrei oggettivare, fare diventare quasi motivo di poetica. Ecco, è questo un altro elemento che forse mi mette a parte nel senso che non è ricorrente nel fare odierno. Ecco però ancora l’aiuto della musica, perché in musica tutto questo è più possibile, perché pause, scatti dinamici, varianti timbriche, cambiamenti di registro possono avverarsi forse di più facilmente che in pittura.
M.P.: Mito e inconscio dunque. Simbolismo ma anche espressionismo e surrealismo. Insomma è quel momento culturale tra fine Ottocento e inizi Novecento che tu rivedi e rielabori continuamente?
M.R.: Complessivamente direi di sì tenendo presente però che tutto questo è fatto interagire con quello che ci ha portato la cultura di oggi. Il passato nel presente, sincretisticamente.
M.P.: Negli anni Cinquanta quando hai iniziato a dipingere trionfava il realismo. Che cosa pensi della pittura di quegli anni? Hai avuto a che fare con quel dibattito o l’hai evitato e soprattutto come hai trovato altre soluzioni?
M.R.: Parto dalla mostra del 1970 realizzata a Mantova: “L’Immagine attiva”. In quella occasione mi sono associato a colleghi che sentivano propensione all’astrazione, oppure, come nel mio caso, a immagini modificate da pulsioni interne. Penso sempre alla pittura “realista” come imbevuta di certi fermenti, caricata di certe attribuzioni che la pittura, per sua natura rifiuta (in effetti oggi siamo tutti abbastanza consci di tutta quella sovrastruttura che fu il realismo socialista). La pittura però ha altri compiti, anzi può sottacere tante istanze che può contenere come contributo forte e profondo, ma non deve, e sottolineo non deve, estrinsecare immagini banalmente obiettive. La mia partenza si basa sempre su un’indagine condotta su altre valenze, sia pure un’immagine che può essere radicata a certe visioni sociali di cui abbiamo parlato prima. Ebbene una mostra come “L’Immagine attiva”, fatta alla Casa del Mantegna, è stata sicuramente un primo sbocco di quelle che potevano essere le mie assonanze con certe pitture, con certi pittori e ha trovato un avallo positivo in Francesco Bartoli che è stata una persona che ho stimato sempre moltissimo.
M.P.: Quindi, in occasione della mostra mantovana, per la prima volta ti sei trovato in una squadra non tanto anomala, anche se già allora eravate pittori molto diversi.
M.R.: Sì, siamo molto diversi, per quanto esistano certe affinità che col passare del tempo si sono andate avvalorando insieme naturalmente a certe divisioni che si sono rinforzate. Se vogliamo entrare nei dettagli, non so se le mie opere possono essere collocate nella “pittura astratta”, anche in questo caso mi trovo in un discrimine, su un crinale difficile. Non è facile vedere lungo quale versante scendere perché per alcuni sono troppo figurativo per essere astratto, per altri invece sono troppo astratto per essere figurativo. E poi quale figurazione? Qui l’inconscio può avere la sua parte, a questo punto, sincretisticamente, c’è qualcosa che può risalire all’espressionismo, qualcosa al surrealismo, qualcosa anche ad una realtà simbolica, al lirismo, al visionario ecc. Il mio desiderio è quello che, ad un certo momento, senza alcun orgoglio particolare si potesse semplicemente dire che certi quadri sono di Raciti.
M.P.: Ricordo di aver letto che uno dei primi critici che ha affrontato questo discorso su di te, nel 1970, è stato Mario De Micheli. De Micheli sosteneva allora che tu non sei un astratto, ma hai una figuratività particolare. Evidentemente è un problema che esiste, tu stesso ami dire: “Sono un pittore naturalista”.
M.R.: Perché mi interessa la natura vera, quella del profondo. In questo senso sono un pittore naturalista, sono un pittore figurativo se si vuole, ma come dicevo prima quale figurazione? Mi diverto dicendo agli amici: “Vi racconto i miei quadri: qui c’è Melisande con i capelli che scendono, qui c’è la bara di san Zeno, qui c’è una sindone che vela un volto”. Ecco racconto le mie storielle: “c’è una bandiera, c’è un libro aperto, ma tutto ciò è bene che non si sappia”, non per introversione, ma perché questi aneddoti possono distrarre da quello che è il fulcro, il contenuto profondo, quel quid, che è inesplicabile, e quindi di nuovo ritorno alla musica. In questo senso sono figurativo, ma queste figurazioni sono fantasmatiche, vengono da lontano e qui tiro in ballo il titolo Presenze-Assenze. Queste immagini vaganti affiorano nel quadro quasi entrando dai bordi. Ho dipinto un quadro che è significativo, dice Con aggiunta di spazio. Ho fatto vedere ciò che può essere “fuori” e il “fuori” in questo caso è uno spazio azzurro, felicemente azzurro. L’idea del fantasma, dell’apparizione è ricorrente come se la realtà non fosse fatta di cose dichiarate, sicure, ma fatta di eventi che collimano e poi si allontanano per poi, magari, collimare di nuovo. Qualcuno mi dice che è facile la poetica del dubbio, no, non è facile dubitare perché mantenersi in bilico su certi crinali non è comodo, non fa bene. Io sono un po’ con Jorge L. Borges, penso che il dubbio sia fondamentale per arrivare ad una presunta lontana verità, che per ora so di non possedere, soprattutto oggi, in un contesto sociale con certe false verità come quello in cui viviamo e che sento molto stridente. Oggi arrivare a qualcosa di definitivo è sempre molto più improbabile e allora la verità forse oggi sta nel dubbio, nel dubbio come lo intende Borges cioè come “uno dei nomi dell’intelligenza”. Insomma dubitiamo per costruire, non dubitiamo per demolire. In questo senso c’è anche un certo ottimismo nel mio fare. Alcuni hanno detto che sono sull’orlo della catastrofe, che la mia pittura corre lungo certi precepizi e cose del genere, non credo che sia del tutto vero. Nel mio operare c’è sempre alla fine un rimandare propositivo, almeno vorrei che così fosse.
M.P.: Quando prima ricordavi i giochi delle interpretazioni, mi sono venute in mente certe dichiarazioni di poetica negli anni di “Pittura-Pittura”: il compito dei pittori è quello di rimanere ancorati alla dimensione del dipinto e poi, in un altro momento, scrivevi: “mi interessa la pittura che si realizza nel suo cercarsi”. Tali affermazioni sono forse un richiamo al linguaggio, al farsi del linguaggio, al linguaggio che si compenetra al discorso del mito e dunque il tuo non è un andare a pescare nell’inconscio per recuperare le figure del mito? Mito come origine del linguaggio?
M.R.: C’è stata una prima fase mia negli anni Sessanta in cui felicemente inventavo delle immagini di tipo figurativo, un po’ simboliche: faro, tunnel, giostra, spiritelli, antenne…
M.P.: Cose provenienti da fuori…
M.R.: Cose provenienti da fuori, esatto, …o da dentro, che poi il fuori e il dentro per me sono la stessa cosa. Alla fine, tutto quello che dovrebbe provenire da fuori viene da dentro, da una visione immanente. All’inizio degli anni Settanta si era posto il problema “del fare” che per me era un grosso problema, perché, come al solito, non mi adattavo a certi canoni e bisognava rigorosamente stendere il colore sulla tela per vedere l’effetto della pennellata. Era un fare riduttivo imposto dalla critica del momento, che disponeva così. Per me è stata una sofferenza ma pur tirando dentro certe valenze di questo “fare”, di questa aria che spirava attorno, la mia pittura dei primi anni Settanta è pulita, molto povera, fatta di pochissimi elementi. La mia immagine però esulava sempre, in senso celatamente narrativo, perché questi “fili” che disegnavo erano dei percorsi, dei volti, delle capigliature. Questo è stato sempre il motivo conduttore del mio fare.
E allora il problema del linguaggio, della forma? Io non credo alla forma come elemento determinante del fare, la forma viene dopo, prima ci sono le nostre istanze. Dobbiamo esprimere qualcosa di complesso, di culturalmente articolato che poi estrinsechiamo cercando la forma più idonea perché questo si realizzi visivamente. Il problema del linguaggio è per me un problema profondo perché è necessario adeguare una certa forma ad un certo contenuto. Il contenuto però è il fatto più pregnante e allora mito come linguaggio, mito come sostanza, mito come favola che è una metafora dei nostri problemi interiori che ci condizionano da sempre.
M.P.: C’è un tuo quadro del 1955, Edipo a Colono, che mi ha colpito particolarmente perché conferma ed è anche il presupposto di tutto quello che hai detto. È, almeno per me, un quadro rivelatore di quanto andrai a fare negli anni successivi, anche ingenuo forse perché dice più di quello che vorrebbe dire: Edipo davanti al bosco sacro, in un tramonto, si appresta ad entrare, per morire.
M.R.: Mi fa molto piacere che tu abbia notato questo, hai colpito benissimo nel segno. Certi referenti lontanissimi, io stesso, li ho scoperti dopo con una certa sorpresa. È un quadro figurativo eppure mi interessava fare vedere “quello che non c’è”, il mistero di una scomparsa, dove è andato, dove sarà, che cosa accadrà. Tale scomparsa è ciò che alimenta i destini del mondo, è qualche cosa di cosmico, di totale. Edipo che va a morire chissà dove e che non si ritrova con tutto quel carico sulle spalle, rappresenta una cosa importantissima, rappresenta tutto quello che non c’è, tutto quello che una scomparsa reca sulle spalle. Si tratta ancora di quello che, fondamentalmente, costituisce anche oggi il problema della mia pittura. Come vedi sono di nuovo in ballo le antinomie.
M.P.: Partiamo da Presenze-Assenze e Esprimere che non c’è qualcosa. Questo concetto, credo, attraversi tutta la tua pittura. Tanti tuoi quadri, come è stato notato, sono fatti di veli, di bianchi che si sovrappongono. A questo proposito mi sono invece venute in mente le parole che usa Heidegger e vorrei riprendere qui il discorso che hai fatto prima sulla verità: non si tratta del concetto heideggeriano di “alétheia”, non è, proseguendo, l’immagine della Lichtung, la radura dove si dirada la vegetazione del bosco e si fa presente la luce? Non siamo insomma ancora a Edipo, al richiamo alla oscurità quindi al tema del mistero che attraversa i tuoi quadri? “L’essere si nasconde e rimane l’ente”, dice Heidegger. Tutte queste figurine, questa sorta di simbologia, di alfabeto, di grammatica che tu ci vuoi dare, questo gioco con l’immaginario, che tu chiami palestra, non è il cammino dello svelamento di questa verità inconoscibile? Non è forse questa una carica di tensione che noi dobbiamo avere per togliere i veli, per arrivare fino a dove possiamo arrivare?
M.R.: Hai dato la risposta che avrei dato io e sono contento che i miei quadri ti abbiano condotto a queste riflessioni.
M.P.: “Là dove manca la parola, lì appare la cosa.” Si tratta sempre di Heidegger che però si incrocia perfettemante con ciò che tu dici quando scrivi: “Esprimere che non c’è qualcosa”.
M.R.: Blanchot lo riprende e dice “Là dove la verità manca”. Heidegger è nell’aria ma io l’ho assunto anche attraverso Blanchot.
M.P.: Ritorniamo agli anni Settanta. Prima di Presenze-Assenze, nei tuoi quadri appaiono figure para-umane, se così le posso chiamare, invenzioni quasi kafkiane, che sembrano dare forma a pulsioni, giochi, a quelle cose insomma che non controlliamo razionalmente e che, poi, ci fanno lo sgambetto. Trovo un filo di ironia in questi spiritelli che di fronte al nostro essere eretti, nella corazza del nostro io, con uno sgambetto ci fanno cadere.
M.R.: Direi che ci siamo abbastanza perché questi spiritelli sono anche cattivelli, sono stati un momento particolare del mio fare. Qualcuno ha detto anche che volevo giocare troppo: “stavano così a disagio che si sono scelti un’altra dimensione”. Il motivo però è questo: eravamo nel ’68, vi era dunque un malessere che nasceva da urgenze reali. Ma l’altra dimensione, che cosa è? È la voglia di inventare un altro spazio perché quello in cui viviamo non ci piace. L’altra dimensione è uno spazio di libertà dove sia possibile “accoppiare un carciofo con la luna”.
M.P.: Tutto il ciclo di Presenze-Assenze viene subito dopo questa fase di spiritelli ma ne rappresenta anche la sintesi.
M.R.: È un mandare alle estreme conseguenze quello che era un mondo che si preannunciava.
M.P.: Si annunciano e sottraggono, ritorna il gioco di prima, anche drammatico, di grande frattura, di ferita. Quello che vedi ti rimanda a ciò che non c’è quindi vuoi dire che manca qualcosa?
M.R.: Esatto.
M.P.: Tu scrivi alla fine di una tua poesia: “La vera soluzione il miracolo della finzione”.
M.R.: È una frase un po’ scettica e insieme esaltante: portiamo tutto in un al di là, questo al di là alla fine è fittizio. In una visita casuale nel 1993 a San Zeno a Verona, verso l’imbrunire rimasi colpito dalla bara illuminata delle spoglie del santo. San Zeno che appare in una sua apparente sontuosità, in questa sua luce ultraterrena finta perché è una luce al neon. Facciamolo trasmigrare, portiamolo in altre dimensioni, portiamolo in un presunto suo empireo: ecco allora “la vera soluzione il miracolo della finzione”, perché dai santi si vogliono i miracoli. Ed è la finzione di credere in queste trasmigrazioni, in questi spazi visionari, che costituisce, se vogliamo, il miracolo dell’arte.
M.P.: Una lucidità questa che ti permette di frequentare la palestra del tuo immaginario, con un piacere che è necessità, e da cui affiora un sentimento del “tragico”.
M.R.: Sì. Il piacere del bello, atteso che bello sotto un altro profilo non è che l’inizio del tremendo, secondo Rilke. Tu mi dici “tragicità”, però, sempre con l’altro risvolto. Non so se sia un’antinomia irrealizzabile, però direi che esistono la bellezza e la chiarezza anche nello sfiorare elementi che vanno oltre, che diventano imprendibili. Il tormento del non trovare, ecco questo è importante. Allora tu mi avevi fatto quella domanda prima, dagli spiritelli alle Presenze-Assenze, ecco è esatto: gli spiritelli finiscono di giocare, cessa il gioco in parte ameno e ci si pone il problema, ma in che spazio ci siamo trasportati? Che cosa c’è qui? Sono sospeso dove? E allora comincia a nascere l’angoscia del vuoto ed ecco che queste Presenze-Assenze dei primi anni Settanta sono state male interpretate, per quello che riguardava la nuova pittura, perché, come vedi, in questa consequenzialità non esiste l’esercizio del puro fare. Ed è in questa nuova dimensione in cui le presenze diventano echi di cose inesplorate, forse imprendibili, che si deve indagare perché qui c’è anche l’elemento tragico. C’è sempre risonanza nel mio lavoro di contro a una pittura semplice oggetto, come la “Nuova Pittura” degli anni Settanta. Prescindere dal lavoro del pittore come dato di partenza per una corretta lettura critica non disdegnandone l’originalità, ha portato a vari equivoci. Avere la garanzia di ascendenze certe per collocare l’opera entro schemi sicuri è la grande insicurezza di certa critica contemporanea.
M.P.: La tua è una scrittura immediata, utilizzi materiali che ti permettono proprio una velocità di scrittura automatica di richiamo surrealista. L’alba dunque come istante in cui le cose rivelano l’urgenza di un dire immediato: “Vorrei stare nel chiarore di un’alba perenne”. Il nostro amico pittore Claudio Olivieri afferma che l’alba può essere anche una nascita, un inizio, un canto di pienezza e per questo in pittura le apparenze si mutano in apparizioni ed è così che ci viene restituito il nostro presente, somma di tutti i tempi, atto sempre inaugurale dell’esistere. Questa maniera di sentire per quanto ti riguarda, ribadisce ancora il legame con la musica e di nuovo con Rilke?
M.R.: La pittura non è solo pittura. Noi non possiamo agire in compartimenti stagni, la pittura è un medium che in quel momento ti appartiene dove convergono tutte le tue molteplici esperienze. Io per altro sono per la pluralità delle discipline quindi non esiste la pittura di qua e la musica di là e via dicendo, tutto sta insieme, ed è giusto così.
M.P.: Il dire immediato del poeta e del pittore è la parola che abbraccia la cosa?
M.R.: Sì. La parola del poeta che abbraccia la cosa. Il pittore è poeta.
M.P.: Ritorna la frattura cartesiana tra la cosa pensata e l’oggetto. Il pittore, il poeta hanno forse la capacità di ripristinare questa unità perduta?
M.R.: Sono convinto di sì, ma persiste un problema di linguaggi sempre più pregnante che ci divide. Il ruolo negativo di certa critica è stato proprio quello di avere staccato la parola dal linguaggio, il linguaggio dalla sostanza delle cose e via di questo passo.
M.P.: Fino a rendere inutile la visione di un quadro, la lettura di un libro, l’ascolto di un disco. Le definizioni insomma hanno finito per sostituire tutto.
M.R.: Ci sono artisti che fanno opere solo secondo quanto parola detta, tanto è vero che esiste anche il quadro parlato. Ci sono tantissime opere che si possono raccontare per telefono, sono opere di parola che hanno il pretesto visivo.
M.P.: Come una didascalia quindi.
M.R.: Certo. Parlando di certi argomenti c’è il rischio di tirare fuori elementi che possono buttare le cose in una apparente retrodatazione; io ci terrei a sottolineare che la nostra non è una posizione retrò, pararomantica o postromantica. È invece molto importante essere nella modernità senza appartenere al modernismo o al modernariato. La modernità abbraccia un senso più dilatato, ma anche più fragrante, duttile. Ho la presunzione di essere moderno, nonostante tutto, nonostante gli spiritelli, nonostante i miei climi “ideali” (ecco una parola che potrebbe far paura), come quando si parla di spiritualismo o di al di là. Perché purtroppo oggi tutto deve – che so io – essere pragmatico, scettico, ludico, nichilista, essere intellettualizzabile. Oggi parlare di albe o di aurore costituisce un rischio. I computer sono nemici delle albe. Come i cinici.
M.P.: Claudio Olivieri ricordando certe polemiche di Alberto Savinio sulla modernità lo avvicina a te. Oltre alla musica dice che avete in comune qualcosa di demoniaco e di domestico. Sostiene che tu frequenti l’inferno in ciabatte come se tu fossi alla soglia della dannazione, magari con una vestaglia da camera.
M.R.: Magari anche perché si ha un po’ paura, apriamo uno spiraglietto, però chiudiamolo. La notte si avvicina.
M.P.: L’impatto che ho avuto con la tua pittura è proprio stato caratterizzato da questo evidente attrito: cose profonde dette con grazia, leggerezza. Il quadro che ho davanti – Giostra – del 1965, è sicuramente pervaso da un clima malinconico.
M.R.: Non con l’urlo, ma attraverso una musicalità, un canto. Mi sovviene una frase di Novalis: “Una certezza nel bisogno cantando”; cantare come salvezza davanti al dramma.
M.P.: Per certi aspetti mi fa ricordare un poeta che io amo, Giorgio Caproni. Anche lui possiede una sorta di leggerezza che lo porta ad affrontare, nel rigore di una forma, i temi più profondi che ci appartengono. Anche lui può essere frainteso come nichilista. Nell’ultima sua opera parla di una “cosa perduta”.
I luoghi dei tuoi quadri, gli spazi che tu immagini potrebbero essere allora chiamati: “luoghi non giurisdizionali”, come direbbe il poeta, dove ci si sente “banditi”. Banditi da uno schema.
M.R.: Certo… l’idea del fuoriuscito. Andare fuori anche dal quadro stesso.
M.P.: Ritorniamo a Presenze-Assenze. C’è una cosa interessante scritta da Elena Pontiggia: “Imprigionare l’invisibile pure conservandone l’invisibilità”.
M.R.: Questa è ancora la situazione in cui mi devo dibattere: devo attirare qualche cosa rifiutandola. È un pedale del mio fare, questo doppio, questo porgere da un parte per ritirare dall’altra.
M.P.: Lo spazio del quadro, il discorso sui limiti. Ho visto un quadro dove tu aggiungi un pezzo al quadro. Prima mi dicevi: non so che cosa sia dentro, non so che cosa sia fuori quindi c’è sempre un discorso sui confini che ti preme; chiariscimi questo discorso.
M.R.: Quando dipingo punto la tela su una superficie di legno, e la dipingo di più di quello che poi viene riquadrato sul telaio quasi per lasciare quel tanto di margine che va fuori e che poi viene perso. Nella mia idea è come andare oltre, fuori, perché, per me, fuori è una metafora. Ci sono quelle cose che io ipotizzo esistano ma non si vedono, però nel quadro ci sono degli echi, c’è l’idea di queste cose che in quel momento realizzo con quella pittura che si vede. Ecco allora che la tela ha i suoi limiti, quel quadro che hai citato Mitologia con spazio aggiunto, di cui qualcuno mi diceva: “hai inventato qualcosa che se ora la metti in opera ti attualizza molto” è unico, non ne ho fatto altri perché non mi piacciono gli espedienti.
M.P.: Infatti quel prolungamento di azzurro l’ho trovato un di più che non mi serviva. È inequivocabile quel senso di sconfinamento, di viaggio, se vuoi, in tutti i tuoi quadri senza bisogno di altro.
M.R.: Forse adesso nei Misteri, la superficie si è andata un po’ più compattando sia pure attraverso delle faglie che vogliono evocare cose che vengono da un profondo. Tra parentesi voglio dire una cosa: mi è stato detto: – Ma perché queste cose non le fai mettendo dei veli, delle garze? – No. Non mi va, perché io, questa garza, la ricavo dal mio intimo; perché è un velo che ho dentro, non è fatto di cotone. È la pittura invece il medium più impalpabile perché, per definizione millenaria, non è cosa, ma metafora, schermo di finzioni. Questa è forse la forza della pittura davanti all’invadenza delle putrelle, dei vitelli in formalina, dei neon e di quant’altro.
M.P.: Sarebbe come banalizzare, la tua forza è quella di accennare sempre. A volte i tuoi enigmi diventano tranelli; appena mi sembra di cogliere l’evidenza di una trama qualcosa subito me la offusca e allora torno daccapo e mi si rimette in moto il meccanismo del dubbio, dell’ipotesi e questo è il fascino misterioso dei tuoi quadri. Claudio Olivieri dice che la vera complessità non è la complicazione dei dati, ma è questo ritrovare l’inizio del principio senza fine.
Il discorso dello spazio del quadro, l’idea dello sconfinamento mi porta a toccare un discorso “attuale” sul corpo. Il quadro, dunque, come prolungamento, protesi, del corpo?
M.R.: o della mente … e della mente…
M.P.: Stavo pensando agli artisti che si rifanno al cosiddetto corpo tecnologico. È sempre piacevole e nello stesso tempo sconcertante vedere come tu affronti questi problemi. Da una parte stanno le grandi tecnologie supersofisticate con i loro miraggi, che prevedono interventi sul corpo stesso, di modifica del corpo, una sua mutazione. Invece con un po’ di colore, una tela, mi sembra, che tu dica molto di più.
M.R.: Rifugiarsi nel mezzo, pensando che il mezzo dica tutto, che il mezzo garantisca tutto senza che ci sia alle spalle una forte pregnanza di intenzioni, di pulsioni, di ricerca non significa niente. Se invece, a monte, esiste una volontà forte, una presenza forte qualsiasi mezzo è buono. Siamo ai problemi di sempre: la tecnologia che si invoca da tante parti non serve a nulla se non riesce a divenire strumento necessario a realizzare determinate esigenze espressive.
M.P.: Entriamo adesso nella fase delle tue Mitologie. I miti, Edipo, Prometeo, Icaro, il mito della creazione, la cacciata dal paradiso, la caduta, ecco motivi che ritornano, che riaffiorano continuamente. Il discorso delle Mitologie mi sembra che parta proprio dalla necessità di ricostruire un senso, un’identità andando a cercarsi dentro, un cammino a ritroso. Da qui scaturiscono allora le grandi solite domande che attraversano questo secolo, si pensi ad autori come Samuel Beckett, Antonin Artaud, l’insinuarsi del dubbio su una creazione sbagliata, gli influssi gnostici etc. Con questo vorrei introdurre la tua ricerca degli anni Ottanta sul mito. Il segnale lo avevi dato inequivocabilmente, come abbiamo visto già negli anni Cinquanta. Ripartiamo dunque da Edipo cieco che vede.
M.R.: La luce veggente della cecità.
M.P.: Edipo è la figura dello straniero, il non stare bene da nessuna parte, la figura freudiana del perturbante, il trovare l’estraneità nel familiare. Etimologicamente nella parola tedesca c’è la casa e c’è, se ricordo bene, l’essere straniero in casa propria. Qui iniziano le Mitologie, è giusto Mario?
M.R.: Giustissimo. Dici bene tutto, è proprio questo: andare a ritroso nel tempo, alle radici, attraverso i nostri sogni ancestrali. Mito in questo senso.
M.P.: Una rielaborazione del mito direi, che non è mai in senso normativo.
M.R.: Mai la norma, trasgredire bisogna.
M.P.: Ma un senso ed un uso “genuino” del mito, direbbe Furio Jesi riprendendo Károly Kerényi.
In questa tua ultima ricerca continui a essere te stesso, non evidenziando mai la completezza di un racconto definito. Il mito di Edipo, di Prometeo, Icaro ci sono sempre tutti, le carte si mescolano nelle immagini della salita e della caduta, della luce e delle tenebre, è giusto questo?
M.R.: Sì, perché le immagini sono folte: un’immagine ne presuppone un’altra e un’altra su cui se ne adagiano altre ancora; come nei sogni, appare una sintesi fatta di una pluralità di immagini che è una cosa ben più precisa nella sua imprecisione. Non c’è un prima e un dopo nei sogni, non ci sono proprio “cose”.
M.P.: Spostamento e condensazione, dice Freud, la catena delle associazioni.
M.R.: Questa è un’immagine forte, molto più dell’immagine che descrive proprio quella “cosina” lì.
M.P.: Sarebbe banalissimo raccontare un mito.
M.R.: Sì, certamente. Ci sono dei segni che possono fare individuare qualche cosa: un’ala franta o altro, mai niente di veramente descritto.
M.P.: Possiamo recuperare, secondo te, Paul Klee nel senso di quello che Argan chiama “comunicazione intersoggettiva”, cioè la libertà di interpretazione attraverso una comunicazione appunto che salta il dato naturale?
M.R.: Certo.
M.P.: Ad esempio nel quadro Grande mitologia, dove qualcuno giustamente ha individuato Prometeo, l’aspetto evocativo mi permette però di leggere anche altro.
M.R.: Benissimo, benissimo, è proprio così. Le descrizioni che faccio per gli amici sono puramente inutili: c’è qualcosa di più folto. Potrebbe essere anche un Icaro, una dea, un androgino oppure uno scontro di meteore.
M.P.: È la struttura dell’immagine che è evocativa, è la sua costruzione che permette di perdermi in questi racconti, non è importante il racconto che tu in quel momento hai nella testa.
M.R.: Esatto. È l’immagine del dipinto, il quadro è un’immagine che sta a sé. È compito del pittore stabilire quali siano gli ingredienti di questa immagine. È compito del pittore confezionarla e al fruitore invece percepirla. Al di là di tutto questo ci sono delle cose che sono così. Che poi dentro quell’immagine ci sia lo scontro di due meteore, ci sia il braccio, ci sia una figura legata può essere utile e può essere non utile, così come il naso o la tuba nei quadri di Piero Della Francesca possono essere utili o inutili per individuare se la figura di Bonconte aveva quelle sembianze. Dietro c’è dell’altro. Nell’ambito dell’astrazione, della modernità, abbiamo saltato questo fosso dimenticandoci del naso e del cappello perché siamo arrivati all’essenza, al tramite che al di là di queste cose ci fa individuare qual è la sostanza del dipinto.
M.P.: Questo è recuperare il tuo precedente discorso sul simbolo ma anche dell’immaginario come palestra dove metti in gioco questi elementi…
M.R.: … in cui tutto è possibile, prescindendo però da un’immagine raccontata, circoscritta, ben delineata nella sua fattispecie. È la libertà, il sogno, la visione che ad un certo momento fanno diventare pregnanti e profonde le immagini e non il loro aneddoto, il raccontino.
M.P.: Come fruitore ho cominciato a entrare dentro i tuoi quadri con molta gioia nel momento in cui mi sono liberato di tutta una serie di orpelli visivi. Nel momento in cui ho capito che c’era un tuo alfabeto da seguire.
M.R.: È proprio quello che spesso non si fa. Bisogna trovare la sintonia. Io ascolto il terzo programma Rai su 96,6 Mhz. Hanno stabilito quella lunghezza d’onda. Chi vuole ascoltarlo deve sintonizzarsi lì.
M.P.: La difficoltà di tanti di fronte ad una pittura come la tua nasce spesso da una chiusura e da una mancanza di educazione alla lettura dell’immagine, dalla rinuncia all’incontro con l’altro che si trasforma in un rifiuto a priori. Volevo leggerti una frase dai Quaderni di Malte di Rilke perché mi ha fatto ricordare il tuo mondo.
Rinviando il tempo della spiegazione che renderebbe vane tutte le cose Malte dice: “Mi piacerebbe tanto rimanere tra i significati che mi sono diventati cari”. Ho ritrovato in questa frase una dolcezza e una malinconia che appartiene al tuo lavoro.
Vorrei passare a questo punto a un altro motivo che mi sta a cuore. Rileggendo George Steiner a proposito delle sue riflessioni sul tragico, si parla di contrapposizione sì/no, l’idea della contraddizione insolubile, ecco le tue antinomie. In questi orizzonti di senso mi sento di legare anche le parole che tu hai scritto sull’ambiguità come unica chiave per leggere il reale. Non ti sembra che anche questo rientri nella tua riflessione?
M.R.: Sì, senz’altro, però attenzione al discorso sull’ambiguità. L’ambiguità come acquiescenza, come ti vedo e non ti vedo, essere lì con una gamba in aria e l’altra non so, non mi interessa. A me interessa l’ambiguità come fattore forte, di attrito tra opposti, l’ambiguità di Prometeo che ruba e crolla. Non è masochismo, ma il lato sofferto delle cose è quello che ce le impone, è quello che ci dà forza. Crogiolarsi nell’ambiguità, come dice qualcuno, è comodo perché in fondo non vieni a capo di niente e tutto è vero e tutto è falso. L’ambiguità è invece un’arma sferzante, qualche cosa che deve pungere, che deve agire all’interno, ambiguità con la “a” maiuscola.
M.P.: Vorrei aggiungere una cosa che tu hai scritto a proposito della modernità: “tensione tra gli opposti, pensiero limite, assenza di luoghi certi, etica tragicità”. Forse finora abbiamo parlato di questo.
Partendo da un’idea di tragicità nella tua riflessione si inserisce il discorso dell’ironia e anche di una certa speranza.
M.R.: Ironia, per esorcizzare il lato oscuro delle cose. Speranza come attesa, come evento che non appare, un Dio che “sarà”.
M.P.: Le vele di luce, di colore chiaro di cui abbiamo parlato sono anche nebbie?
M.R.: Perché no. Siamo nati nelle nebbie, perché allora non devono ritornare nel nostro fare? Questa è un’idea di genius loci che oggi si tende a rifiutare. Ognuno di noi si nutre di spunti personali. Io sono un entronauta padano.
M.P.: Qualche marchio ce l’abbiamo.
M.R.: Qualche marchio l’abbiamo e ce lo teniamo caro.
M.P.: Vedendo le tue prime cose mi è venuto in mente Marcel Proust, la “madeleine”. Quando tu dici: “Vorrei dipingere non le ali, ma il loro battito”, non è come in Proust?
M.R.: Certo. Perché così il senso è recondito, è un’immagine che contiene il dilemma di immagine non immagine.
M.P.: “Negli anfratti profondi dove affiorano vaganti reperti” nascono, i Misteri, l’ultima tua fase. In Misteri c’è rimasto solo qualcosa che galleggia.
M.R.: Le ossa.
M.P.: Qualcosa che galleggia dopo il naufragio?
M.R.: C’è questo senso perso delle cose. In senso molto lato qualcuno ci ha perfino intravisto delle marine, degli strati subacquei. Io non dico né che c’è mare, né che c’è terra, siamo alle solite… un altro spazio. Che ci siano dei vaganti reperti fa parte delle mie intenzioni remote. Qualcosa che va mutando però, è presente forse un andare sotto in contrapposizione a quello che una volta era un andare sopra. C’è un fatto più sotterraneo. Questi relitti affiorano da un sotto, è un ritorno alla terra, un ritorno alle Madri. Ma non è un naufragio, è un’attesa. Qualcosa dovrà apparire.
M.P.: Una metamorfosi che parte dagli “spiritelli”. Claudio Olivieri dice che un quadro di Misteri sembra fatto a impulsi. Gli orizzonti sono scomparsi completamente, è cambiato l’amnio.
M.R.: Un accenno di orizzonte a volte c’è, in alto, a significare che lo spazio indagato è sotto. Io penso che ci sia un’evoluzione anche nella conduzione quasi tecnica di quello che si fa. A un certo momento questo andare a faglie, il quadro che faccio non è più una stesura, sono più stesure per sovrapposizioni lente.
M.P.: Quindi, mi sembra di capire che mentre all’inizio parlavamo di scrittura rapida sulla carta intelata, qui sta forse cambiando il senso del tempo, forse non c’è più l’esigenza di una immediatezza, ma la ricerca di una durata.
M.R.: Io intendo per rapidità non un fatto gestuale, ma una intuizione, uno scatto che mi mette in sintonia diretta con l’opera, che tecnicamente può essere condotta più o meno velocemente. Oggi comunque la mia stesura è rallentata. Certo è un rallentare anche percettivamente. Certi riferimenti non sono scomparsi del tutto. Tutto parte da quella visione nella chiesa di San Zeno, quel sarcofago, niente di mortuario però. Stranamente quel sarcofago è diventato un sommergibile che ha richiamato degli spazi sottomarini con delle sonde, degli scandagli, dei periscopi.
M.P.: Affiora Dostoevskij, è un tuo amore di gioventù, se non sbaglio?
M.R.: Sì, certo, un amore per l’idea folta del romanzo che si avvicina anche all’idea della musica di Mahler, folta, assemblata di elementi contrastanti. Tutto questo sicuramente ha giocato nel mio lavoro. Penso che in un dipinto, anche se è cosa difficile da mettere in pratica, dovrebbero essere riassunti tutti i nostri quadri precedenti oltre a tutto quello che abbiamo letto, visto ecc. Sarebbe la cosa più bella del mondo.
M.P.: Gli elementi di cui tu parli, li vedo nei tuoi quadri perché ci sono, perché sono suggeriti.
M.R.: Sono molto contento di questo.
M.P.: Partendo da una riflessione sul teatro, e in particolare sulla ricerca di simbologie in autori come Samuel Beckett e Antonin Artaud, vorrei porti un altro quesito importante che riguarda il discorso sulla crudeltà. Mi sembra infatti di cogliere che anche su questo aspetto qualcosa che ha a che fare con la tua ricerca c’è. Umberto Artioli, in un bellissimo libro scritto con Francesco Bartoli su Antonin Artaud, partendo da una riflessione che anche tu fai sull’anestetizzazione contemporanea, dice: “Lo strazio del vivente (…) per cui avverte la propria carica energetica, non come la continuità di un soffio felice ma come un flusso in procinto di sottrarsi, cioè la fagocitazione del vuoto.”. Già in Mitologie, ma adesso soprattutto in Misteri non gioca tutto questo? Lo strazio della creatura.
M.R.: Si, sono molto d’accordo. A questo punto devo parlare di un aspetto ancora non preso in esame: l’eros. Soprattutto in Mitologie era molto delineato l’aspetto dell’eros come tormento, inappagabilità, eros come incontro tra due esseri che pur compenetrandosi non si raggiungono mai. Tutto questo è strazio e tutto questo, se vuoi, è crudeltà, ma non come diretta volontà di infliggere un sacrificio, non come shock esterno, ma come sofferta partecipazione a una condizione. L’eros nelle Mitologie si realizza come un tratto crudo, impossibilità grafica che, a volte, può arrivare anche ad una afasia dell’opera. Io ho fatto, ho distrutto, a volte anche divulgato quadri che forse non hanno raggiunto il loro obiettivo. Io non mi vergogno dell’impossibilità di realizzare l’opera perché questo fa parte di una volontà espressiva, di una poetica. Schönberg, in Mosè e Aronne, interrompe l’opera al verso: “Oh, parola, parola che mi manchi”. Necessità di cui io non posso fare a meno. In questo senso crudeltà, la crudeltà della pittura.
M.P.: A questo punto dobbiamo chiudere e vorrei congedarmi provando a dare un nome a quel clima che penso attraversi la tua complessa ricerca. Mi sembra di poter dire che i tuoi quadri siano attraversati da una sorta di malinconico stupore. È questa la sensazione che ora so di aver percepito fin dall’inizio e di condividere con te.
(in Mario Raciti, opere 1950-1998, Galleria del Premio Suzzara, Comune di Suzzara, 1998)