Antologia critica > Luciano Caramel

Il miglior viatico per la pittura di Mario Raciti non è certo quello che si usa chiamare un “testo critico” o, peggio ancora, una “presentazione”. Ben più appropriato alla sua peculiarità, piuttosto, sarebbe l’intervento di un poeta, che al lavoro del pittore giustapponesse il proprio, evento ad evento. E magari con l’appendice di qualcuno di quei densi scritti in cui l’artista più volte s’è peritato di esplicitare in prima persona, nei limiti del possibile, il clima, almeno, e l’area problematica entro cui si dipana il suo fare, così difficilmente definibile, così costitutivamente alieno dall’esser bloccato in alcunché di troppo determinato, pena la perdita della viva flagranza testimoniale che nella forma e nei processi operativi si invera.

Accingendosi a scrivere, in righe estemporanee, necessariamente generiche e brevi, d’un autore di tale fatta, si avverte in tutto il suo peso l’inevitabilità del limitare la ricchezza dell’esperienza che solo l’opera direttamente può dare, con quei margini di indeterminatezza, mutabilità, ed anche soggettività, che alla pittura son propri. Il che coinvolge la questione della peculiarità del “messaggio” dell’immagine e della possibilità di trasferirlo in un medium differente da quello verbale, per natura non oggettuale, temporalmente articolato e strettamente simbolico: tutt’altro quindi della determinatezza fisica, della “astanza” direbbe Brandi, e della “referenzialità” della pittura, anche quando, come in Raciti, essa è quasi impalpabile, carica di interni percorsi e sottilmente allusiva.

Un’occasione come questa – una retrospettiva in un pubblico museo – richiede tuttavia vengano evidenziati alcuni motivi utili ad un miglior accostamento dei lavori esposti. A cominciare dall’ininterrotta fedeltà, sin dall’inizio, dell’iter di Raciti ad un proprio filo interno, si collegano a precedenti, più o meno vicini e più o meno determinanti – dal Surrealismo a Gorky, a Matta, all’Informale, e da Licini a Novelli –, e sempre dialogante con la filosofia, la psicologia, la letteratura, la musica, ma obbediente a ritmi e sviluppi intrinseci. Così già nei primi anni Sessanta, allorché dal relazionismo post-informale e dal divagante, narrativo grafismo che improntava i suoi quadri di allora egli non passa, come invece tanti altri, a Milano e altrove, ad una più nitida e decantata oggettivazione, ma piega i propri strumenti espressivi – quelli, in fondo, suoi di sempre – a complesse allusioni simboliche, ove l’automatismo ed il materismo si sposano, come con acutezza sottolineò tempestivamente Sanesi, persino ad “accenni a un occultismo ermetico”, con l’adozione di “forme allusive (triangolo, piramide, cuore, clessidra) a una dimensione emblematica dell’interpretazione figurale”. Dove ormai si esprimeva quella “rivisitazione dell’immaginario” dallo stesso Raciti evidenziata come “aspetto insopprimibile per la restituzione all’uomo di una sua misura”, “mezzo necessario” al suo tipo di impegno. “Immaginario non come evasione solipsistica, ma come palestra per esercitare la complessità delle strutture antropologiche”, al fine del “raggiungimento della libertà”. Con un’implicita polemica, quindi, con gli schematismi che allora impedivano il riconoscimento di essenziali valenze dell’individuo, in nome di astratti funzionalismi razionali o di idealistici privilegiamenti dell’idea sul fare. E quindi con una “inattualità” per cui Raciti certo ha sofferto, ma che non si è tramutata in ostacolo alla genuinità della sua ricerca; come ora la trasformazione delle coordinate culturali e la conseguente imprevista “attualità” delle sue posizioni non lo distolgono dal radicamento entro un registro tutto privato di tensioni e trasalimenti, elevazioni e cadute, ove non c’è spazio né per gestualità vitalistiche né per passività naturalistiche, e invece “si stabilisce una sorta di continuità fantastica vibrante ed attiva”, in “un dialogo aperto, che avvince, perché nasce da una condizione spirituale assolutamente autentica”, come ha scritto Marchiori, comprendendo Raciti come aveva compreso Licini, che al giovane pittore lusinghieramente collega per l’urgenza dei “valori morali”.

Ed è infatti ancora il compianto studioso ad avvertire che c’è nella pittura di Raciti – “viaggio verso domini interiori da esplorare e rivelare”, “diario di fatti, occasioni, sentimenti, pensieri, sensazioni” – “un nuovo modo d’interpretare se stessi, un nuovo tipo di analisi, che avvicini all’essenza, e che si riassume nei simboli, in sostituzione delle parole”. Contesto entro cui si intende il valore del ricorrente interrelarsi, nelle immagini dell’artista, di alto e basso, di salita e caduta, di trascendenza e contingenza; o dell’insistenza sull’obliquità, sull’ascendere contrastato; ed anche dell’essenziale ruolo della luce, il vero protagonista, in definitiva, delle tele e dei disegni di Raciti, nel suo imporsi, ma anche nel suo attenuarsi o nascondersi, strumento di rivelazione e di mistero. Il tutto in una spazialità determinata non a priori, ma dal crescere dell’immagine e dal suo dar concretezza a qualcosa che non è della e nella pittura ma con questa interferisce, anzi questa origina. Ecco il ricorrere del titolo, dal 1968 esclusivo, Presenze-Assenze, che non indica ambiguità di figurazione, ma appunto dilatazione verso un al di là – e un al di qua – del quadro, che nel quadro appare ma velato, fantasma non determinabile, tra atto e memoria, mito e storia, conscio e inconscio, singolarità e collettività, terra e cielo. E quindi, secondo le parole dell’artista, “la pittura come esperienza limite, non più relazione tradizionale immagine-oggetto ma mediazione dell’invisibile in realtà”.

Di recente, poi, come era d’altronde implicito nei precedenti, le interferenze si son fatte più intime e la coincidentia oppositorum va fondendosi nell’incandescenza dell’espressione, che può ormai, senza timore di descrittivismi e di perdite di tensione, trovare nuova solidità strutturale ed anche, talora, con una ripresa di franta narratività, più scoperte allusioni semantiche. Ancora, come sempre, “la pittura che si interroga spiazzandosi, che si realizza nel suo cercarsi”, ci ricorda Raciti. Con procedimento implosivo e secondo i tempi lunghi e brucianti della poesia, tra ricerca e desiderio.

(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate, 1983)