Antologia critica > Flaminio Gualdoni

Da mezzo secolo ormai Mario Raciti dall’antica vocazione verso l’astrazione lirica, cresciuta dalla costola non retorica dell’informale, passa alle grandi campiture dai colori estenuati, in cui le immagini appaiono come sedimenti lievi, ai limiti dell’inavvertibile.

Ora queste due nuove mostre di Piacenza e di Milano (47 lavori dal ’74 ad oggi) confermano l’autenticità di quella vocazione, e la qualità dei suoi sviluppi recenti.

Poteva, Raciti, accamparsi sotto le insegne che ne hanno fatto già uno dei più poetici interpreti dell’astrazione italiana, declinando all’infinito quei suoi segni filamentosi che si dipanano come tracce sismografiche dell’animo, oppure quelle tonalità di celeste, di giallo o di terra rese diafane e pulsanti come respiri.

Da artista di razza, egli ha scelto di rimettere nuovamente tutto in questione, ulteriormente distillando l’armamentario già ridottissimo e limpido della propria pittura. A dominare, ora, è un bianco che nella levità stremata della stesura inghiotte i mille colori possibili, e le molteplici temperature di ciascuno dei colori. È un bianco al quale è stata sottratta ogni matericità evidente, così come ogni residuo d’immediata piacevolezza.

Esso si stende, come una sorta di liquido amniotico in cui le immagini sono fantasmi lontani, quasi a indicare una lontananza metafisica, un tempo e uno spazio sospesi che appena vengono marcati dai filamenti di colore, dalle impronte, dalle tracce che, labilissimi, l’artista vi dissemina.

Non si può non leggere, alle soglie dell’estrema maturità di Raciti, un afflato che in queste vaste pitture si fa oggettivamente sacrale, una sorta di meditazione sulla vita e la morte dell’immagine che implica molto più di ciò che mostri.

Certo, allo sguardo dell’oggi non si può che indicare questi nuovi quadri come inattuali, lucidamente appartati entro un ambito di pensieri e suggestioni che nulla vuole spartire con le cronache e i dibattiti dell’arte.

(Mario Raciti: dove domina il bianco dei fantasmi, in “Corriere della Sera”, 12 novembre 2005)