Antologia critica > Flaminio Gualdoni

Mario Raciti, La pittura dell'ignoto, Skira, Milano, 2010

1.
Sin dalle prove iniziali, sin dalla stagione in cui molti, per vie affini e diverse, saggiano l’uscita da un informale ridotto a retorica rantolante, Mario Raciti ha ben chiaro non solo, come tutti, ciò che non vuol essere, ma anche molto di ciò che, in un corso che da subito s’annuncia introverso e solitario, vorrà essere.
Vuole essere pittore. Ovvero, sceglie di preservare un’identità del fare che è assai più che scelta tecnica: perché dietro e dentro essa ha un mondo, ed è questo mondo, non la retorica della trementina, che a Raciti importa. Pittore, perché pittori sono coloro che da secoli possono dialogare con “certa idea che viene dalla mente” e, ormai si sa bene, questa idea non è necessariamente figura ma altro; perché le immagini “apportano anco mirabile giovamento all’animo per la similitudine misteriosa che ci rappresentano”: perché la pittura è dunque molto più, e molto meno, di un discorso, perché fa aggallare, coagulare, scatenare strati simbolici e mitici e umori a fronte dei quali le parole s’arrestano e si ritrovano solo loro, la pittura e l’anima.
“L’artista esercita attraverso le forme una funzione simbolizzante”, è capace d’essere microcosmo e insieme di costruire un pantheon – che poi la divinità sia già presente o meno, che arrivi o non arrivi, non è così importante – e di dire ma più ancora di sussurrare, mormorare, cantare. Altri, se vogliono, proclamino.
Raciti, dunque, ha un’idea della pittura, o piuttosto un’aspettativa. Sa che il sublime vi è possibile, la dismisura dell’anima, comunque la sua consapevolezza. Sa che la “lotta, scacco, nuova lotta, nuovo scacco, nuova lotta ancora” di cui troppi strologheranno di lì a poco, per altri è questione di società, di politica, di cosa pubblica, ma che la vera partita è quella che si svolge nel chiuso dello studio, un a tu per tu tra l’anima e la blankness esigente ma confidente della tela, del foglio.
Pittore, soprattutto, perché poeta. Perché esiste un territorio in cui le domande valgono per sé, domande che non attendono risposta – magari sperano, ma la conferma mai sarà decisiva – e che vivono responsabilmente il dramma tra luce e oscurità, tra dire e intuire, tra intuire e non riuscire pienamente a dire: e quel non pienamente è tutto ciò che serve per sentirsi vivi. Perché il poeta pronuncia presenze a ridosso del vuoto, guardando alle assenze, e sapendo che là si deciderebbe la partita, se fosse possibile. Ma la partita, di per se stessa, “c’est quelque chose”: è vita spesa meglio che a predicare, è come guardare in fondo agli occhi dell’eterno fratello anziché fissarsi sulle sue fattezze ingannevoli.

2.
“Cominciai a guardare all’informale con la volontà poi di costruire una nuova immagine, emblematica, visionaria, alla ricerca dei substrati della pittura; raccontare non direttamente ma per dati traslati che sottendessero altro, immagini lontane.” Se c’è una cosa che il grande dibattito artistico degli anni Cinquanta lascia in eredità di chiarezza a Raciti, è che a nulla vale la retorica del figurare oratorio, e a ben poco la figurazione travestita da geometria ove non sia capace di ritrovare il suono profondo del mito, l’umore alto della metafisica.
L’informale è molte cose: tra esse, la sottigliezza d’un segnare che, per antico distillato e non fuorviato umore surreale (intendo Paulhan, e Caillois, e Leiris, e Bataille e l’idea sua di informe, ovvero che la funzione delle parole è prevalente sulla loro capacità definitoria: che è faccenda assai seria e assai più radiante di troppe retorichette di gesto materia grido dramma soggettività irrelata eccetera: non a caso Raciti ama Blanchot), diviene rabdomanzia dello psichico, ricerca di fratture più che di connessioni, di grumi ove il senso può annidarsi e di trame impreventive e mobili, ma proprio per ciò capaci di rivelazioni.
È come se, Raciti ben se ne avvede, ormai non fosse più in discussione l’autonomia del pittorico e dei suoi elementi primi, essenziali, e finalmente l’artista non fosse tenuto a ricapitolare per l’ennesima volta che un punto è un punto, una linea una linea – e la quantità illimite di linee è l’universo del possibile abitabile dai segni – e una superficie una superficie. Abbattere la somiglianza ormai non è neppure più combattimento: ma una volta vinta la battaglia, che cosa farne di questa “fière et indocile liberté”? Farla valere di per sé, oppure farne un atto autentico di engagement, chiedendosi quindi non come e in quanti modi essere moderni, ma perché? Assumerne l’arroganza dell’oggi, o già guardare dove confina lo scenario e cosa può essere al di là? Immaginare le partite infinite del linguaggio, oppure concentrarsi sull’unica necessaria, quella ancora capace di mito, di metafisica, forse di sacro: magari venendone ogni volta frustrati, ma ogni volta avendo la certezza che esprimere è faccenda meno banale che emettere segni, perché può essere tentare un senso?
Raciti si pone di fronte alle sue opere, in quello scorcio di anni Cinquanta e all’avvio dei Sessanta, in una sorta di concentrazione digrignante, incoercibile, che si vuole e pretende totale: c’è lo spazio, c’è il segno, ci sono quei celesti e bianchi ora trasparenti ora calcinati che dilavano e instaurano interrogativamente luoghi, e ci sono quei tracciati pericolanti, quasi stupefatti, che segnano passaggi e voglie, desideri, speranze di forma. Come parole che non stabiliscono ma eccitano, che non dicono ma, in una sorta di straniata balbuzie, rivelano. A voler far filologia, che qui serve per quel che serve, dici per certi versi Fautrier, il Fautrier delle carte soprattutto, e il suo “je destine la peinture à mon propre usage” e le sue ansie genetiche tra forma e spazio. Più Licini, e quel suo dibattito tra sogno e materia che è sensualità così prepotente della sostanza d’immagine e insieme assoluta trasparenza celeste, e per quelle sue cadenze che non mimano i ritmi di questa o un’altra realtà, ma scaturiscono dalla possibilità di senso situata nella terra di nessuno tra reale e irreale, o meglio, lui avrebbe detto, superreale: poli, questi, di uno scambiarsi infinito di tensioni che sono, esse stesse, quelle genetiche della sua immagine, e con la sua di quella di Raciti.
Ritmi, si dice. Ritmi che sono anche kleiani per quell’astrarre con qualche ricordo ma soprattutto per una questione tutta interna di cadenze del segno, tra fili melodici che vorrebbero tendersi e dissonanze che s’innescano, lievi e incalcolabili e meravigliate: e per quella sorta di accecamento intellettuale che fa di Raciti, di fronte al foglio, qualcuno che sta facendo, che parla con le mani, che si trova e si perde continuamente, che riduce a proporzioni antieroiche di cristallo poetico ciò che Jackson Pollock, rivelazione comunque per una generazione, lascia inciso nei dripping: “Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quello che sto facendo. È solo dopo, per una sorta di ‘presa di coscienza’, che vedo con chiarezza ciò che ho fatto”, perché “la pittura gode di una vita propria”. Raciti magari non ama Pollock, ma sa bene che egli non fa che restituire in grande, fisicizzando, ciò che accade tra Klee e la sua anima sul tavolo, davanti al foglio, dopo aver posato il violino. Soprattutto, che il disegno può non stare sotto la pittura ma sopra, e da disegno interno farsi canzone cantata nel luogo proprio.
E poi ama Gorky, quel suo fare del segno un’agonica trama nervosa, Agony, e quel suo tentare The Unattainable, sempre e comunque. La sconfitta non importa.

3.
“La natura oltre, quella del profondo. Sono un pittore naturalista.” È da qui che vengono fuori anche aromi di storie, storiette all’antica, e simboli al coagulo minimo, e viaggi che sono di spazio ma anche di molto altro. Poi le Presenze-Assenze, serie decisiva in cui lo spazio “sono delle piccole strade per passare” e “quelle dilatazioni laceranti” “rendono un ben diverso suono che la dissolvenza lirica”.
E la sua natura non è il naturale visto, né quello toccato, e neppure quello partecipato. È la ragione genetica dell’accadere, l’ambito oscuro e umido in cui si decide la ragione del nascere, e dove agiscono forze cui è indifferente il gioco e il dramma, il minimo e il tutto, l’esserci e il non.
Qui emerge un’altra caratteristica essenziale del fare di Raciti. Uomo d’evidente sensualità e capace di serissimo to play, intellettuale dalle fervide nourritures e senza il mito della cultura, Raciti si fa pittore sospettoso del proprio stesso talento, e pudico, pudicissimo, come per rigore luterano, di fronte all’opera. La quale è faccenda sempre, per lui, serissima: e unica: ed esclusiva. Nonostante lo studio conosca il passo fluente della seriazione e una sorta di ansia del mettere al mondo, soprattutto nella dimensione più intima del foglio, di fronte alla superficie Raciti dismette, d’un sol colpo, le arguzie della mente e le astuzie della captazione sensibile, l’orgoglio intellettuale e le facilità della mano. “Come una pittura ultima”, sempre.
È, il suo, un “fare scoperto. Senza artifici, in presa diretta, dentro le origini”. I pensieri sono prima, intorno, folla che s’agita. Di fronte c’è, se c’è, l’irrappresentabile, le secret du monde, la domanda dubitante al sacro, a un divino che possa fare tempio di questo microcosmo.
Questa è, “più che una tesi da dimostrare, una visione da mostrare. E, dietro, un’ossessione”.

4.
Ogni volta, ogni volta Raciti si pone di fronte al quadro non per fare il quadro, ma per declinare la propria pronuncia minima dell’ossessione. Poggiandola su miscreduti orizzonti oppure facendola levitare in cieli estranei, cantando il rosa d’una carnalità che erompe dalle maglie fitte del concentrato controllo espressivo o mormorando rossi stremati, e celesti come avvelenati, violetti vogliosi d’erotica. E il segno corre, s’impenna e s’addensa, inciampa e trasecola, rimuginando intorno alla forma che non c’è, come orfano d’un centro e di un dove.
Nel tempo il canto di Raciti, come la voce umana, s’imbrunisce, si fa più fondo e, se possibile, ancor più meditativo. Il pastello s’aggiunge all’olio, secco e turgido, e i grigi e i bianchi si fanno come internamente risonanti, non più materie ma consistenze, parole di luce.
È la maturità estrema di Raciti, in cui avverti soffiare un afflato che si fa apertamente sacrale, una sorta di meditatio che implica molto più di ciò che mostri.
Mistero. Pittura non enigmatica. Forse nemmeno più pittura, nel senso di un voler essere qualcosa, del voler avere qualcosa da dire. Pittura come un respiro che preme nei polmoni, assedio della mente, difesa ultima forse non vana: necessità non scelta: la pittura, la pittura sola, conta per Raciti, e la sua capacità di farsi poesia, di dire solo delle cose delle quali val la pena di dire.
Why. Bianco che nella levità stremata della stesura inghiotte i mille colori possibili, e le molteplici temperature di ciascuno dei colori. Esso si stende, come una sorta di liquido amniotico in cui le immagini sono fantasmi lontani (“ma, aggiungo io, come distonicamente aggredite da nere corrosioni. Il duale è il mio terreno, e noi siamo dilaniati tra altezza e profondità. Fare arte vuol dire avere conosciuto l’Ade”), quasi a indicare una lontananza metafisica, un tempo e uno spazio sospesi che appena vengono marcati dai filamenti di colore, dalle impronte, dalle tracce che, labilissimi, l’artista vi dissemina.
È un soliloquio in cui la pittura è lì, amata inflessibile, e lo spettatore è facoltativo. Lo specchio di questo monologo è il mistero, appunto. Il sacro. E la luce: “la luce!… che recede, recede… opaca… dell’immutato divenire. Ma nei giorni, nelle anime, quale elaborante speranza!…”.

5.
“Pittura, semplicemente. Per tutti coloro che non abbisognano d’altro.”

Citazioni, con e senza virgolette, da Raffaello Sanzio, Gabriele Paleotti, André Leroi-Gourhan, Mao Zedong, Stefan Zweig, Mario Raciti più volte, Jacques-Bénigne Bossuet, André Berne-Jouffroy, Flaminio Gualdoni, Paul Klee, Annibale Carracci, Jackson Pollock, Giovanni Testori, Gastone Novelli, Marco Valsecchi, Louis-Ferdinand Céline, Tommaso Trini, Umberto Saba, Carlo Emilio Gadda.

(Ragionamento su Mario Raciti, in Mario Raciti, La pittura dell’ignoto, Skira, Milano, 2010)