Antologia critica > Angela Madesani

Mario Raciti mani mine misteri, catalogo della mostra personale, Solaria Arte, Piacenza, Signum Edizioni d’Arte, 2005

Quando un artista ha un cammino lungo quasi cinquant’anni è difficile scorgere dei nuovi germogli, dei virgulti. Nella maggior parte dei casi, anche quando ci si trova di fronte a personalità ricche e complesse, si notano ripetizioni, rielaborazioni dello stesso pensiero.

Questo recente di Mario Raciti, Mani mine e misteri, invece è una sorta di nuovo esordio. Una variante di situazione che necessita, ovviamente, ulteriori verifiche, ma che è degna di una registrazione.

Seppure nella scia del suo fare, qualcosa è andato mutando. Affiorano le parole dal biancore della tela. Troppo facile e prevedibile è scorgere in tutto questo una vicinanza con Gastone Novelli, artista amato, ma non per questo imitato e rielaborato. In un grande lavoro, e mi pare più che mai significativo, sono le scritte: nihil e jein. Può essere in tal senso utile ripescare un vecchio aforisma di Raciti: “Dicono che Wilhelm Furtwängler pronunciasse spes­so la parola ’jein’ mentre concertava un brano musicale, sintesi di ’ja’ e di ’nein’. Perché la realizzazione dell’opera è provocata da un attrito, una tensione fra opposti. Solo così nasce lo spazio dell’imprevedibile, del vivente”.

Del resto tutta questa nuova ricerca parte da due fondamenti dell’esistenza del mondo: aliquid e nihil, che Raciti propone in un pastello, momento primigenio, che apre la mostra. Ancora una volta, tempo del dubbio. Parole che dicono senza dire, o che dicono qualcosa di diverso dall’apparente. Che necessitano di approfondimento, di scavo.

Così come nella nostra esistenza con la sua complessità, il più delle volte impenetrabile. È qui il senso del doppio, delle antinomie. La cui scoperta, il cui svelamento è, nel corso degli anni, costante della ricerca di Raciti, profondo e sincero pensatore, in grado di porsi di fronte al suo circostante con la dovuta curiosità e con un senso sofferto di interrogazione. Il suo è un fare mitteleuropeo, di quella cultura del dubbio che segna il pensiero di alcune fra le più intense personalità del XX secolo, da Thomas Bernhard a Winfrid Georg Sebald.

L’uno, l’univocità delle cose è una grande aspirazione a cui tuttavia non si giunge, se non attraverso l’analisi e la presa di coscienza del doppio.

O forse è un’utopia a cui non si giunge comunque. Un’aspirazione. Attuata attraverso l’ordinamento, almeno apparente delle cose, in un processo per via di levare che rimanda a quello degli artisti del rinascimento.

Questi recenti lavori nascono da Misteri, un ciclo inaugurato fra il 1993 e il 1994. Quando Raciti aveva avuto una sorta di visione, nella chiesa di San Zeno a Verona: dove l’unica cosa illuminata, all’ora della chiusura, era la bara del santo. Bara che appariva una visione vera e fittizia al tempo stesso. Una sorta di finto miracolo gratificante in senso visivo. Dimensione onirica che porta nel corso degli anni a questo senso dello spazio. Lo spazio delle cose che non vediamo, come, nella maggior parte dei casi, le scritte nei suoi dipinti, che emergono come in un palinsesto, in una sorta di perentorietà visiva e fenomenica.

E ancora una volta è la duplicità fra il suo fare astratto che astratto non è e il suo fare non astratto che diviene astratto che comunque può essere letto come tale.

Le mani, nelle recenti opere di Raciti, vivono, agiscono e dicono altro da sé come tutte le immagini. Che immagini sono proprio perché dicono altro da sé.

La natura di tutto è di tipo emblematico. Ma ben si intenda non si tratta di un lavoro letterario. Sarebbe una forzatura. Raciti è e resta un artista visivo, dove la grafia diviene segno carico di simboli e di rimandi, ma pur sempre segno grafico.

Qui come spesso nella sua ricerca è l’evocazione di cose inesistenti, inapparenti. Nel tentativo di uscire dalle troppo facili categorizzazioni, al di là delle etichette, delle semplificazioni, in stretta relazione con un tempo come il nostro dove un’operazione di questo tipo è quanto meno necessaria. Sarebbe troppo facile tentare di iscrivere tutto, di incasellare tutto. Inutile tuttavia, alla comprensione delle cose. Il tentativo è quello di lavorare nello spazio dell’imprevedibile, cercando di lasciare nei lavori un campo di espansione che si spinge oltre il limitante confine del telaio.

Mi pare che, senza la paura di sbagliare, si possa affermare che questi lavori di Raciti sono incentrati sul concetto di apparenza all’interno di un viaggio nello spazio, dove, tuttavia, non è possibile giungere immediatamente al senso delle cose.

(Note sui recenti lavori di Mario Raciti, in Mario Raciti, mani mine misteri, catalogo della mostra personale, Galleria Solaria, Piacenza, Signum Edizioni d’Arte, 2005)