Antologia critica > Vittorio Fagone

Raciti è un artista che da una decina d’anni porta avanti una ricerca vitalmente precaria e riflessiva per la quale forse l’unica definizione possibile resta l’enunciato di Klee “ciò che è raggiunto non ha vitalità”, Raciti era stato visto a Milano in due mostre (Rizzato-Wittwhort, 1967 e Morone, 1968) affollate di piccoli quadri dove minacciosi fantasmi ironicamente trapassati in spazi di ambigua chiarezza, proponevano una perlustrazione del mondo dal particolare rovescio di una storia, bloccata oltre porte bianchissime, di minuti avvenimenti, dialogati e senza svolgimenti, con una insistita frammentaria dispersione che era poi il verso psicologico di costituzione e il confine del quadro. Pitture albicanti dove il bianco acquistava non tanto la dimensione chiarista, luministica quanto quella più corposamente pressante della sua simbolicità (il colore dell’inquietudine, vissuto e mancato), dilatava uno spazio psicologico in una prospettiva così orientata e approfondita da non costituire campo di narrazione ma percorso, “viaggio”; un viaggio corto, un ribaltamento di tensioni, un rivoltarsi con inquietudine dentro il difficile governo del quadro, dal positivo dell’emergenza di una immagine al negativo del suo decadimento dispersivo, dello scatenamento. Una condizione lucida di disfatta accettata dentro il confine di una scrittura fragile e orgogliosa, con un’enfasi liberata. Il detto russo “portare nello scudo la lagrima ridente”, annotato da Klee, come sottoscritto per anni – con una adesione ironizzata ma scoperta – al fondo di ogni quadro. Le opere nuove, di questi ultimi anni, proseguono le linee di una ricerca così autonomamente tracciata rispetto alle seduzioni delle poetiche dell’evidenza, dell’oggetto come metafora rovesciata (non più la percezione aristotelica della somiglianza nella diversità, ma la diversità nella somiglianza, anzi nella tautologia). Vi è lo stesso chiuso oscillare da una corporeità comunicativa a un più profondo idiocosmo, cioè a un universo personalizzato legato più che a un trasporto d’immagini all’esistenza per cui quelle immagini vivono, sono, o più esattamente divengono. Non esplose da una capricciosa esplorazione fantastica ma determinante in un passo stretto – che è poi ragione espressiva, obbligata – di penetrazione dentro gli oggetti, di conoscenza.

È a questo livello che l’assoluto legato alla interiore soggettività e storicità del quale ha scritto Raciti negli appunti che talvolta ha presentato insieme ai quadri – può essere ricondotto al gioco arduo delle essenze, cioè alla ricerca di quello che Binswanger ha chiamato un “vedere dentro”, una conoscenza più sicura dello stesso vedere sensoriale; una esperienza immediata diretta che preferisce ricondurre gli oggetti a una loro totalità nel momento in cui li scompone. Però anche le opere ultime dimostrano uno spostarsi dal nucleo originario, dal rischio del farsi, alla elegante messa in forza di equilibri allusivi di una diversa fisicità. Cioè quello spazio psicologico nel quale Raciti ha caricato la sua ricerca (e che – come De Micheli ha giustamente rivelato nella bella monografia pubblicata da Scheiwiller nell’occasione si pone come “scardinato” rispetto a un orientamento spaziale) ora si va organizzando secondo una più esplicita e percepita direzionalità, viene a cercare equilibri e dilatazioni esterne. Se il campo fisico dei quadri di Raciti si è esteso (i quadri delle due ultime mostre hanno notevoli e sorprendenti dimensioni) ciò è anche dovuto al fatto che essi cercano uno stabilimento che impegna il lettore a ritrovare, a una dichiarata distanza oltre un gioco elegante e calcolato di equilibri, la “porta” bianca da cui è possibile conoscere dismetria, qualità e realtà del mondo. È un momento questo per Raciti di verifica (interna); non si tratta di vedere se uno stesso campo psicologico può “tenere” nella sua illusoria esiguità quando venga moltiplicato per quattro, ma di misurare come un filo azzardato di ricerca interiorizzata possa essere svolta per una ragione costane ed esplicita di determinazione.

(in “Nac”, N. 35, aprile 1970)