Antologia critica > Sebastiano Grasso

Mario Raciti, Why, 2009, tecnica mista su tela, cm 200x145

Mario Raciti è nato a Milano nel 1934. Dopo la laurea in Legge e un paio d’anni trascorsi nello studio di un avvocato, decise di appendere la toga e dedicarsi completamente alla pittura. Che, assieme a poesia e musica, era stata sua inseparabile compagna di viaggio nel periodo giovanile. Non si trattava certamente di una decisione facile. Tant’è. Ma il tempo gli avrebbe dato ragione.

A trent’anni, la sua prima personale. E da allora Raciti è rimasto fedele alla sua vocazione. Poesia e musica si sono ammantate di vapori grigi, bianchi, neri, rosa, verdi: tutti colori, però, appena accennati, sussurrati quasi, suggeriti.

Mai una strombazzatura, un urlo, un fracasso sulle sue pagine malinconiche. Tutto era leggero, impalpabile, velato.

Musica in sordina, con lunghe parentesi di silenzio. In fondo, tutto ciò rispecchiava la natura dell’uomo, la sua discrezione, le pause. La conferma era arrivata, nel 1986, alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma.

E, nel 1989, a Milano, in quella straordinaria esposizione di 45 opere al Padiglione d’arte contemporanea di via Palestro.

Sotto sotto s’avvertiva una certa predisposizione ad un tipo di narrativa analitica, ad uno scandaglio capace, al tempo stesso, di evocare un dialogo natura-colori. È quanto avviene anche in questa rassegna genovese, in cui sono esposti una trentina di lavori recenti (I fiori del profondo). Misteri, mitologie (Persefone, figlia di Demetra, che coglie fiori, rapita da Ade), presenze-assenze, sirene.

Se si dovesse fare un raffronto con uno scrittore, il primo nome che verrebbe in mente è quello di Leonardo Sciascia. Immaginate l’incontro fra i due e il lungo dialogo di silenzi. «Piacere»; «piacere» e zitti su una panchina per un paio d’ore. Dentro di loro, però, covava il crepitio dell’invenzione, della genialità. Tra prosa e colore.

La pittura di Mario Raciti è proprio così. Nelle sue immagini frammentarie, nelle suggestioni e in quel senso di indefinito e di indefinibile che comunicano allo spettatore, s’avverte un fortissimo lirismo, una sorta di riverbero musicale in cui qualcuno ha visto la proiezione d’un Friedrich.

Ed ecco che visioni, immagini, fantasmi e il gioco della luce ambivalente, evocano altre voci e ne captano il respiro; alla ricerca dell’ anima «nel chiarore del mattino» o «nelle trasgressioni della notte». Raciti scruta dentro di sé. E che cosa vede?

A proposito, in una conversazione con Guido Strazza, di un decennio fa, poi riprodotta in una monografia, l’artista lombardo spiegava: «Se guardiamo dentro di noi, nei nostri sogni, non vediamo che antinomie, diversificazioni, strati. L’orizzonte si apre nel profondo su tante prospettive. Ed ecco perché una mia immagine non è solo “quella cosa lì”: è una bara, ma anche un fantasma bianco, un sommergibile, una capigliatura, un segno, un colore. Il centro, oggi, non esiste. Ma che cosa fare se il petto si gonfia e hai voglia comunque di “cantare un bel canto”? Gettare fondamenta per una cattedrale senza altari. Attorno ad essa domani nascerà una nuova città. In quella cattedrale, secondo Rilke, ci sarà un dio. E se tutto ciò non avvenisse, canteremo con Falstaff che “tutto il mondo è burla”».

(Quando l’anima è un gioco (misterioso) di colori, in “Corriere della Sera”, 6 novembre 2011)