Antologia critica > Miklos N. Varga

Lo scambio di parole vale in senso del discorso, se al posto del consueto “lupus” mettiamo “pictura” per significare “in fabula” qualcosa di cui si parla e che sopravvive all’improvviso, quasi a scompigliare tracce e tracciati più intuibili che riconoscibili, sempre inerenti al farsi “pictura”. E di pittura si tratta per Mario Raciti che, appunto, ha sempre seguito se stesso al sopraggiungere (“in fabula”) retrospettivo delle proprie convergenze poetiche, vissute per essere rivissute al presente, attraverso un itinerario ininterrotto, legato al filo dell’immaginario nella contiguità di un autorispecchiamento che “disvela” più che rivela le costanti eventiche del “doppiogioco” speculare fra arte e vita, dell’uomo nell’artista e viceversa, “allo scoperto”… Intendiamoci, con prudente determinazione.

Come altri pittori della sua generazione, Mario Raciti (Milano, 1934) ha recepito l’ambiguità climaterica degli anni Cinquanta, condensandone le conflittualità nelle proiezioni immaginative, quasi fossero degli ingredienti problematici da traslare o, meglio, da ricondurre a una fase di decantazione più filtrata al bivio delle scelte poetiche, al di fuori delle tentazioni tendenziali. Infatti, al riscontro di questo consuntivo ventennale, gli anni Sessanta e Settanta di Raciti risultano “spiazzati” rispetto alle coeve codificazioni formali; ma, di contro, evidenziano una “scelta poetica” affatto personale, soprattutto rischiosa in anni caratterizzati dai flussi e riflussi della “ragion pratica” depositaria di una politica culturale a… scartamento mercantile. Se pensiamo, oggi, al “dopo l’Informale” con l’avvento della Pop Art, all’arte Povera e alla Nuova Pittura con l’Arte Concettuale e la Minimal Art, tanto per fare qualche esempio, non possiamo disconoscere agli atipici come Raciti il merito di aver percorso, senza ostentazioni profetiche, certa “inattualità” più che mai attuale… considerando la disumanizzazione ripetitiva dell’arte e il “ritorno” alla poetica del sentire umano.

È piuttosto insolito ma altrettanto evidente che, non sopportando etichette o scorciatoie di comodo, Raciti non intenda pronunciarsi sulle proprie “citazioni”, anche se ne avrebbe tutto il diritto a giudicare dal repertorio di segni-racconto su campiture testuali in progresso evolutivo-diagnostico, senza perdite di tensione e di intensità empatiche al respiro mitopoietico dell’immagine. Tuttavia, dagli Spiritelli degli anni Sessanta alle Presenze-Assenze del decennio successivo fino al 1985, le variabili citazioni costituiscono una proprietà (“in fabula”) che rispecchia, coerentemente, la poetica di un pronunciamento pittorico condotto, anche in senso narrativo, sui “valori” a confronto e non sui “modi” di evasione, o di aggiornamento alle mode, sul campo della contemporaneità. Per questo Raciti agisce “allo scoperto”, lasciandosi scoprire da chi ha ancora la capacità di mutuare un’immagine in un evento poetico. Ciò che distingue la “ricerca” dal lavoro di routine è l’identità di riflessione nella processualità operativa. Identità, appunto, che Raciti viene confermando nelle sue opere, variabili nei “riflessi” concettuali e formali ma costanti nella tenuta del discorso.

Certo, sarebbe monologico il riscontro se non si avvertissero delle “inflessioni”, delle cadenze fra una pausa e una ripresa, un ripensamento “critico” e un ritrovamento “affettivo”. Ed è proprio in questo andamento operazionale che il linguaggio della pittura è consonante al respiro dell’uomo, invertendo le regole o trasgredendole impulsivamente a seconda degli automatismi che presiedono alla “ri-formulazione” creativa dello stesso linguaggio. Ecco allora che il segno impulsivo viene a turbare il contesto riflessivo, quasi a significare la rottura di un equilibrio per… riequilibrare le funzioni liberatorie dell’immagine nel tessuto dell’immagine. È uno dei motivi che il pittore milanese lascia trasparire più frequentemente, in quanto implicazione binaria (presenza-assenza) di quella “simbolica dello spirito”, per dirla con Jung, che viene lievitando alla superficie dell’immagine, partendo dall’interno per offrirsi in “presa diretta”. Empatia e, quindi, comunicazione. Linguaggio della divisione. Trasparenza poetica dell’essere nello spazio umano del corrispondente avere pittorico. Così, aldilà della “ragion pratica”, gli spiritelli icastici della “ragion critica” di Mario Raciti trovano alloggio negli accampamenti delle nostre proiezioni umane, quale “pictura in fabula” del più complesso e perturbante specchio della memoria.

(Raciti: “pictura in fabula”, in catalogo della mostra personale, Biblioteca Comunale di Cassano d’Adda, 1987)