Antologia critica > Mauro Corradini

(…) Racchiudere Raciti negli ambiti consueti delle scansioni stilistiche appare non solo arduo, ma improbabile: Raciti è un lirico, sente il colore, si accosta inconsciamente ai colori leggeri, lievi, di una tradizione, anch’essa lombarda, quella stessa praticata in gioventù quando per uno zio esegue paesaggi e nature morte alla maniera di Del Bon e De Pisis. È un lirico, Raciti, per cui il colore diviene spazio, aria, luce, attraverso i pochi segni, i richiami, i rinvii intuitivi e analogici; tutte le sue forme, anche lievi, anche il racconto di nulla, divengono immagine non didascalica. Dalla mitologia risale e approda là dove forse tendeva (e da dove forse era partito) ai Misteri, e sul finire degli anni ottanta (1988), presenta al Pac (Padiglione d’Arte Contemporanea) di Milano La visione e l’invisibile, un viaggio nel mondo etereo dello spirito.

È la trascrizione di una visione che emerge nel mare della luce; la pittura è utopia luminosa, piena di necessità liriche. In quelle tracce, in quelle trepidanti materializzazioni, in quei segni, tutto quello che sta nascosto nell’animo dell’artista, di cui forse l’artista stesso non è pienamente consapevole, e tuttavia esiste e risale dal profondo, trova forma ed espressione, forma compiuta, anche se fragile, nella pittura.

È l’archetipo, il segno originario. È l’incontro con il mistero che sta in ognuno di noi? Confessa Raciti in una conversazione pubblica con gli allievi della Laba (Accademia di Belle Arti di Brescia) di essere un pigro, di muoversi poco; e di aver tuttavia compiuto un lungo viaggio fino a Delfi e Micene per la Pizia. Per scavare nel profondo, per trovare le tracce minute di un’assenza o di un’antica presenza, per definire l’indefinibile, per trovare un segno, fragile, di noi. Potrebbe essere memoria (come nella piccola “madeleine”, la “bocca di dama” di proustiana memoria), o sono forse gli archetipi che covano nell’animo di ognuno, sepolti dalla quotidianità. Poco importa: attraverso il segno aggallano e vengono a chi osservi le inquietudini e le beatitudini della coscienza.

Se l’arte del secolo che abbiamo appena chiuso si è assunta il compito, in forme e modi sempre diversi, di dar voce all’invisibile, di trascrivere quel mistero – non casualmente Mistero è il titolo dell’ultimo ciclo, con cui si chiu­de la contenuta antologia –, anche il segno di Raciti, tra stupore e inconscio, tra rivelazione e scoperta, va interpretato in questa dimensione. La pittura traduce il nostro io profondo, quell’essere – a volte a noi stessi sconosciuto – che chiede di esistere, di apparire, determina con la sua presenza quella libertà di relazione tra le cose e noi, che diviene rapporto tra luce e ombra, tra chiarità e increspature, diviene poesia.

(Rivelazioni ed epifanie. La poetica di Mario Raciti, in Aperture: dal secondo dopoguerra al terzo millennio, Edizioni Millennio, Sassoferrato, 2004)