Antologia critica > Marco Valsecchi

Una nota caratteristica del dipingere di Mario Raciti, raccolta e ripresa da critico a critico, è l’accento di favola delle sue solitarie immagini, che più dell’apparire concreto, cercherebbero una zona lirica in cui realizzarsi. Tutto ciò, e le derivazioni spiritualistiche ad libitum di quella poesia del minimo, non sono proprio le più esatte per l’inclinazione ad operare in un certo modo dell’artista. Ma almeno si deve riconoscere di non avere lasciato cadere le proposte di Raciti nel conformismo in auge, preservando quelle dilatazioni laceranti delle “Presenze-Assenze” che rendono un ben diverso suono che non la dissolvenza lirica. Lo spazio bianco in cui avvengono i suoi eventi immaginari, non è un progressivo nullificarsi; al contrario è un drammatico spazio testimoniale in cui il pittore accerta la situazione attuale del pensiero e dell’esistenza ormai sospesi a questo fragile balenare di coscienza e di aspirazioni. Il bianco vale come sudario del vivere e le crepe repentine di una certezza che appena emerge e indolentisce tutti gli schemi delle labili metamorfosi.

Si è detto, insomma, che nel limitato agire dell’impalpabile consistere della realtà svuotata dai suoi connotati oltre che dalle figure umane, Raciti sfugga liricizzando persino la drammaticità implicita all’assentarsi della concretezza. Non potendola possedere la favolizza. Senonché un simile parere è precipitato al fondo delle illusioni e allusioni letterarie. La poesia, quindi, come evaporazione squisita di umori, come svagamento solipsistico.

Semmai la situazione è opposta, mi pare. Raciti non cerca di alleggerire i suoi carichi con la situazione vaporosa di lontani echi evocativi; cerca piuttosto di uscire dalla leggerezza preziosa dei profili, dal legamento dei segni appena sospesi nell’aria leggera e avvolti per soffi e modi più labili degli stessi fili di ragno e di seta di Klee. Essi, alla fine, sono testimoni della ricerca drammatica della positività, come già disse di sé lo stesso pittore. Drammatica positività come potenza del desiderio, che qualcosa si enuclei e prenda possesso del vuoto per articolare un’immagine al di fuori dei fantasmi privati. Superare alfine l’angoscia del vuoto che si sfilaccia comunicando orrore e trovare un tempo storico, realizzato al di là delle antinomie filosofiche per la logica certezza della poesia.

Allora, a questo punto, si capovolge da sé il valore della concretezza vaporosa dei profili, dell’abbacinato sprofondare dell’apparente vuoto (e cioè il momento della “assenza”), che assume valore di infinito al limite del bianco non svuotato, ma ora colmo del desiderio di una vita diversa e cioè meno precaria. Da qui la testimonianza del laborioso farsi e disfarsi delle immagini per non cadere ancora una volta nelle illusioni e ipoteche di questo tempo senza fine in cui hanno voluto travolgere le nostre esistenze nei miti utopici. La pittura di Raciti, fuori di queste serrande delle illusioni, diventa, almeno a me pare, testimonianza che è pure già resistenza nel tentativo di salvare la propria storia e la propria umanità, che non si lasciano vanificare.

(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Galleria Forum, Trieste, 1978)