Antologia critica > Klaus Wolbert

Mario Raciti, La pittura dell'ignoto, Skira, Milano, 2010

Il concetto tedesco di Innerlichkeit, nelle sue effettive valenze semantiche o psicologiche, è traducibile solo approssimativamente in italiano, perché questo concetto chiave della tensione romantica verso ciò che attiene all’anima, verso le profondità interiori, verso il mistero e tutto ciò che è nascosto definisce non solo un’interiorità fisica, ma anche e soprattutto una condizione emotiva, una disposizione contemplativo-sentimentale che comprende l’intera gamma della sensibilità soggettiva, e che nel romanticismo tedesco ha trovato espressione in una struggente e inappagabile tensione verso l’infinito, il notturno, l’onirico, l’inesplorato, il trascendentale e verso gli imperscrutabili segreti custoditi negli strati più riposti e più oscuri dell’animo umano. Novalis lo definiva come l’esperienza dell’insolito, di ciò che trascende la realtà prosaica, e lo indicava come un volgersi verso le sfere del presagio, dell’indistinto o dell’altro da sé. E su questa disposizione d’animo così importante per lo spirito romantico scriveva: “L’arte di estraniare in maniera piacevole, di rendere un oggetto estraneo e tuttavia familiare e attraente, questa è la poetica romantica”. E Novalis è anche l’inventore del metaforico emblema del Romanticismo, evocato nel suo incompiuto romanzo fantastico Heinrich von Ofterdingen, il “fiore azzurro” che appare in sogno al protagonista, che è diventato metafora della tensione romantica verso un ideale Wunderwelt, un mondo fantastico, “svincolato dal tempo terreno, che dovrebbe esistere, ma non c’è” (Eckart Klessmann).

Anche nella pittura romantica agiva la stessa predilezione per il sentimento dell’indefinito, per la suggestione di atmosfere – di gran lunga preferita alla mera rappresentazione di un soggetto – che si esprime appieno nel genere del paesaggio. “Un dipinto non dovrebbe essere inventato ma sentito”, recitava una delle massime di Caspar David Friedrich, che altrove ha dichiarato: “Il pittore non dovrebbe dipingere solo ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede dentro di sé. Se dentro di sé non vede nulla, allora eviti anche di dipingere ciò che vede davanti a sé”. Il sentimento cosmico e le tonalità elegiache, che si ritrovano come motivi conduttori dell’espressione romantica dai Canti di Ossian di Macpherson fino a Rilke, permeano anche le immagini della natura dipinte da Caspar David Friedrich, perché quelle immagini scaturivano dalla sua profonda esperienza personale dei fenomeni visibili, come anche dalla sua vita interiore, dalla sua creatività e dalla sua ricerca di un’intima comunione con la natura, che lui stesso, nel 1821, confidandosi con il poeta russo Vasily Zhukovski, ha descritto in questi termini: “devo rimanere solo, e sapere che sono solo, per ammirare e sentire pienamente la natura; devo abbandonarmi interamente a ciò che mi circonda, congiungermi alle mie nuvole e ai miei scogli, per poter essere ciò che sono. Ho bisogno della solitudine per dialogare con la natura”. Gli esiti di una comprensione della natura così intimamente sentita, addirittura mistica, trovavano espressione sul piano pittorico in una nuova raffigurazione di stati d’animo, atmosfere e valori del vissuto che fino ad allora erano stati evocati solo dalla musica. L’effetto della natura era recepito come un’orchestrale “risonanza dell’anima”, e prendeva corpo in un’impressione sinestetica che investiva l’animo e la fantasia. L’arte – almeno l’arte di finzione – doveva schiudere sfere ignote e lontane, nelle quali la natura avrebbe assunto una funzione quasi religiosa, e sarebbe diventata il medium privilegiato dell’incanto, dell’elevazione dell’anima e della spiritualità. L’esempio più celebre di questa sacralizzazione della natura è il dipinto di Friedrich La croce sulla montagna del 1808, che ha destato scandalo perché era stato concepito come pala d’altare, e dunque avrebbe dovuto essere collocato in una chiesa come elemento dell’apparato liturgico. A quest’idea della natura è legata una concezione universalistica e panteistica – che trova espressione in pittura – in virtù della quale anche i punti di riferimento che servono a orientare la percezione vacillano, e le impressioni visive si confondono e si sovrappongono. William Turner ha creato gli esempi più impressionanti di questa pittura, in cui i contorni degli oggetti si dissolvono in un flusso ininterrotto di fenomeni visivi; mentre il teorico del Romanticismo Adam Müller, nel 1808, ne ha dato questa formulazione: “le cose che circondano l’uomo più da vicino, la sua casa, gli alberi, il suo giardino, appaiono solide, chiare e nitide, in un brusco contrasto con l’etere mobile e fluente; ma se egli alza il suo sguardo tanto da abbracciare una distanza più ampia, i contorni delle cose diventano più morbidi, i colori più tenui: l’aria e la terra sembrano muoversi insieme, si scambiano di posto con maggiore confidenza; tra le nuvole appare la terra, subentrata al posto del cielo, e nei laghi e nei fiumi appare il cielo, sceso al posto della terra – e nella più ampia distanza i confini si sciolgono, si fondono i colori, e non si può più dire cosa appartenga al cielo e cosa alla terra”.

Se si confrontano le definizioni del Romanticismo riportate a titolo d’esempio – specialmente quest’ultima citazione – con la pittura di Mario Raciti, risulta innegabile che anche le creazioni di questo artista sono pervase da un latente romanticismo, poiché sono anch’esse manifestazioni di una spiccata soggettività, di impulsi sensualistici e intuitivi. Le sue sensibili, sottili notazioni grafiche e pittoriche, spesso simili a registrazioni sismografiche delle vibrazioni dell’anima, come pure la delicatezza dei segni appena abbozzati, la soffusa indefinitezza, il carattere accennato e spontaneo della sua comunicazione visiva, lasciano trasparire una concezione artistica fondata sul sentire. Anche l’estrema riduzione cromatica e formale, la parsimonia di mezzi espressivi con cui articola le sue immagini, rivelano che a guidare l’esecuzione delle opere è una disposizione spirituale.

Certe analogie con gli ideali romantici emergono anche, in modo altrettanto convincente, da alcune dichiarazioni verbali di Raciti, ad esempio quando parla di “miracolo della finzione”, che in ultima analisi costituisce il “miracolo dell’arte”; a tale proposito, assume un valore decisivo il fatto che l’artista abbia acquisito questa consapevolezza durante una “visita casuale” nella chiesa di San Zeno a Verona. Osservando le reliquie di San Zeno, presentate in una cassa illuminata da luci al neon, in modo tale che la luce creasse uno spazio visionario, Raciti ha compreso quante affinità legano la fascinazione che promana dalla rappresentazione sacrale e la fascinazione che scaturisce dall’arte. Nell’intervista da cui è tratto questo passaggio, condotta con Marco Panizza nel 1998, Raciti discuteva anche del suo stretto legame con la musica, parlava di poesia e della fusione tra le diverse discipline artistiche, un’altra tesi che veniva sostenuta in forma analoga dai romantici: Richard Wagner definiva Felix Mendelssohn-Bartholdy un “pittore di paesaggi musicali”, e d’altro canto, spesso e volentieri, il Romanticismo cercava di ricreare in pittura e in letteratura le strutture compositive e le sonorità della musica. Anche Raciti, durante una conversazione, ha parlato di “pluralità delle discipline”, dichiarando: “quindi non esiste la pittura di qua e la musica di là e via dicendo, tutto sta insieme, ed è giusto così”, per poi concludere: “il pittore è poeta”. Così facendo, Raciti affrontava una questione che fin dall’antichità è stata oggetto di dibattito, ovvero se esista una gerarchia tra le arti o piuttosto una loro equivalenza; l’opinione espressa da Raciti concordava a suo modo con quella esposta da Orazio, che nell’Ars Poetica, con la celebre formulazione “ut pictura poesis”, proponeva l’idea di una convergenza delle arti che mantiene la sua attualità anche in epoca moderna, dove i confini tra i generi e gli ambiti artistici tendono sempre più a confondersi. Raciti toccava anche un altro tema, ovvero la questione del carattere narrativo delle sue opere, o meglio della possibilità di interpretare iconograficamente e oggettualmente uno specifico elemento formale o un segno, e a questo proposito assumeva una posizione che tende a concedere all’interpretazione uno spazio di libertà, avvicinandosi a un principio che Umberto Eco, nel suo testo del 1962, Opera aperta, aveva introdotto nel dibattito artistico. Quando Eco parla di “forma come campo di possibilità” o di “struttura invece di forma”, si può istituire un raffronto con le posizioni teoriche di Raciti, ad esempio nel caso del passaggio in cui Eco tratta del rapporto tra struttura e segno, constatando che il “segno” all’interno della “struttura” (informale) diventa certamente “impreciso e polivalente”, ma questo non rende “indefinita” la “polisemanticità delle forme raffigurate”. Eco indica in questo contesto il “problema di una pittura che accoglie in sé il regno dell’ambiguità, la fertilità dell’informe, la sfida dell’indeterminato; che può offrire all’occhio la più libera di tutte le avventure e perciò anche generare un fatto comunicativo”, ma vede anche che la conquista dell’apertura, se portata all’estremo, comporta il rischio di una perdita di informazioni, e che l’inesattezza e il disordine, se portati all’estremo, non contengono più alcun “segnale”. Il “fruscio”, ovvero la negazione dell’informazione causata dal carattere eccessivamente indifferenziato del dato visivo, impedisce ogni possibilità di decodificazione e di scioglimento del significato, e comporta che si assista “passivi e impotenti allo spettacolo del magma originario”. Di conseguenza, l’“informazione” che bisogna desumere da un’opera d’arte accresce e si intensifica se la “struttura diventa inverosimile, polisemica, imprevedibile, disordinata”, tuttavia, per mantenere una “possibilità di comunicazione”, è imprescindibile conservare quel “delicato equilibrio” in virtù del quale il “minimo di ordine” e il “massimo di disordine” possono trovare una conciliazione. È interessante notare che le riflessioni di Umberto Eco sono state sviluppate primariamente in riferimento ad esempi della “nuova musica”, a cui attiene anche il concetto di “fruscio”, e secondariamente sono state rielaborate per fornire un modello interpretativo della pittura informale. Si può supporre che Mario Raciti condivida i fondamenti essenziali delle tesi di Eco, soprattutto per quanto riguarda l’equilibrio tra l’apertura e la pregnanza del segno e per quanto concerne la “poetica dell’accenno”. Indicazioni in questo senso si trovano facilmente in alcune affermazioni di Raciti, in particolare quando l’artista confessa: “le descrizioni che faccio per gli amici sono puramente inutili”, perché un Prometeo “potrebbe essere anche un Icaro, una dea, un androgino oppure uno scontro di meteore”, e quando sostiene che “il quadro è un’immagine che sta a sé”.

Un elemento decisivo per la sua definizione di opera d’arte e anche per la sua pratica artistica, in cui gli spunti informali sono certamente importanti ma non dominanti, è quello che Raciti afferma chiaramente, ovvero che è l’idea a costituire l’immagine; nella sua concezione, sono principalmente “la libertà, il sogno, la visione che ad un certo momento fanno diventare pregnanti e profonde le immagini e non il loro aneddoto, il raccontino”. Se da queste osservazioni di Raciti si ricava un profilo delle sue inclinazioni ideali, allora si giunge senz’altro alla conclusione che per lui, accanto all’invenzione di segni liberi che agiscono e interagiscono l’uno con l’altro all’interno dell’immagine, assumono un’importanza fondamentale i contenuti spirituali e immaginativi dell’opera. Questa tendenza si desume anche dai titoli dei suoi dipinti, nei quali ama inserire termini che appartengono all’ambito semantico dell’immaginazione e della fantasia, come ad esempio “spiritelli”, “mitologia” e “mistero”, senza che siano effettivamente raffigurati degli spiriti, un episodio mitologico o un fenomeno misterioso. I titoli non forniscono una spiegazione oggettiva e fungono esclusivamente da punti di riferimento, da strumenti che orientano la ricezione dell’opera, poiché annunciano la dimensione semantica entro la quale essa si colloca. Per Raciti, questi concetti sono delle tematiche portanti, dei motivi conduttori che dominano una determinata sfera dell’irreale, o meglio, dell’intenzione artistica, e normalmente li utilizza anche a distanza di anni per opere diverse che appartengono a un unico ciclo, il che indica come la singola opera sia solo una variante tra le molte ispirazioni possibili che scaturiscono da una prospettiva visionaria o dalla forza dell’intuizione. Altrove Raciti ha dichiarato: “Personalmente ritengo di essere vicino alla pittura visionaria in genere, al Simbolismo, a Gorky o Tiepolo, a De Pisis o a Sima. […] La pittura è un fantasma”.

Citando Tiepolo e Gorky, Raciti menziona due nomi che – se proprio si vogliono cercare delle ascendenze – possono essere considerati antecedenti più o meno diretti del suo credo artistico, certamente con maggiore fondatezza rispetto ad altri che quasi regolarmente vengono a lui associati, come ad esempio il nome di Novelli. Forse il riferimento a Tiepolo in questo contesto è poco più di uno spunto, ma non privo di legittimità, almeno a livello di associazione, poiché, nella pittura di Raciti, la presenza di un ductus morbido e ondulato in alcune aree delle sue opere evoca ricordi delle magnifiche nuvole che il grande artista veneto sapeva dipingere con una pennellata virtuosa, illuminando le tonalità cromatiche in una maniera quasi già impressionista. Anche Raciti ha un’innegabile predilezione per questo cromatismo chiaro, sfumato, steso con tocco leggero. Ma è certo più tangibile il suo legame con Gorky, poiché all’artista americano di origine armena, scomparso nel 1948, Raciti sembra legato da una vera e propria affinità elettiva, un’intima sintonia, che si lascia scorgere nella formulazione dell’immagine e che permette di intuire quali siano le relazioni decisive per la sua personale disposizione spirituale e artistica. La maniera espressiva così tipica di Raciti, che consiste in una commistione di elementi grafici e pittorici, si trova anche in Gorky, con la differenza che la linea di Raciti mostra un tratto oltremodo sensibile e nervoso, e la cromia si colloca sulla superficie in modo frammentario, rudimentale e appena accennato, apportando solo una delicata accentuazione in tonalità smorzate, senza mai imporsi in maniera vistosa.

Anche Gorky, come Raciti, si affidava allo stenogramma intuitivo, che da un lato si concretizza come manifestazione di un impulso creativo scaturito dal profondo, e dall’altro è da intendersi come analogia della genesi della natura. Mantenendo la figura di Gorky come punto saldo, è possibile ricostruire una linea della storia dell’arte che collega Raciti alle “morfologie psicologiche” di Roberto Matta Echaurren, ai segni arcaici e archetipici di Joan Miró e infine alle astrazioni spirituali e ispirate alla musica di Wassily Kandinsky. In molte opere, anche provenienti da “epoche artistiche del passato”, Kandinsky scorgeva soprattutto delle composizioni sinfoniche, e l’autonomia del linguaggio musicale lo stimolava a creare un linguaggio altrettanto autonomo anche in pittura. Aveva raggiunto il suo obiettivo nel 1911 con le sue prime opere puramente astratte, che, ispirandosi alla terminologia musicale, aveva intitolato Improvvisazioni, e che ne Lo spirituale dell’arte – ultimato già nel 1910 – aveva descritto come “espressioni principalmente inconsce e per lo più sorte improvvisamente, di eventi di carattere interiore, dunque impressioni della ‘natura interiore’”. Con questa straordinaria testimonianza di una creazione artistica che proviene dall’“interiorità”, come dall’“inconscio”, Kandinsky è senza dubbio tra i primi artisti moderni, dopo i romantici e i simbolisti, che hanno rivendicato un linguaggio espressivo la cui articolazione si dispiega in forma di manifestazioni grafiche e pittoriche che sgorgano dal profondo dell’animo. Oltre a Kandinsky, per Raciti anche Paul Klee è stato un modello, in quanto protagonista di un’arte dell’immaginazione e della fantasia giocosa, anche se dal punto di vista stilistico sono riscontrabili solo parziali analogie. La concordanza riguarda la disposizione spirituale, poiché anche in Klee, che era un abile violinista, la musica svolgeva un ruolo privilegiato come equivalente e fonte di ispirazione della pittura. In Confessione creatrice, pubblicato nel 1920, Klee aveva scritto i suoi pensieri sui valori formali, semantici ed estetici del linguaggio grafico, che sembrano concordare con alcune dichiarazioni di Raciti; ad esempio notava: “L’essenza della grafica induce facilmente e legittimamente all’astrazione. L’indistinto e il fiabesco dell’immaginazione vi trovano posto, e si esprimono con estrema precisione. Quanto più puro è il lavoro grafico, ovvero quanto maggiore è l’importanza attribuita agli elementi formali sui quali si basa la rappresentazione grafica, tanto più scarsa è la predisposizione (volontà, disponibilità…) a rappresentare realisticamente cose visibili”. Ciò che si può estrarre da queste dichiarazioni è la forte tendenza verso lo spirituale e l’irreale che ha accompagnato l’emancipazione della pittura astratta, o meglio non figurativa – almeno agli inizi –, una tendenza che negli anni precedenti la prima guerra mondiale permeava lo spirito del tempo. Il materialismo e il predominio della razionalità venivano messi in discussione; pensatori come Friedrich Nietzsche o Henri Bergson acquisivano un notevole ascendente sugli artisti d’avanguardia, orientandone le poetiche, e sistemi di pensiero alternativi come la teosofia mietevano adepti nell’ambito delle arti. Diffusamente circolavano concetti come apollineo e dionisiaco, slancio vitale, intuizione, empatia, psiche, volontà creativa, che facevano concorrenza alle categorie di pensiero del razionalismo e del positivismo. Grazie a queste nuove tendenze, era ormai libera la via per la mobilitazione artistica della sfera inconscia e alogica, a cui appartengono la scrittura automatica dei surrealisti e la libera gestualità della pittura informale, non controllata dalla ragione, concepite come psicogrammi dell’immaginazione e dell’interiorità.

Molto di ciò che si è detto in questo excursus nella storia della pittura moderna si addice anche alle concezioni personali e artistiche di Mario Raciti, anche se vale la riserva, su alcuni punti, per la quale si crede che la sua opera sia già in parte classificata: ad esempio, Raciti non è un pittore che lavora esclusivamente con forme astratte; certamente non rappresenta soggetti figurativi riconoscibili o concreti, tuttavia nelle sue rappresentazioni affiora sempre un’apparizione morfografica in cui si possono scorgere analogie con il mondo naturale, con paesaggi, vegetali o altri organismi. Nelle sue opere si trovano anche allusioni cifrate a fenomeni terreni o cosmici, come i vaghi e rudimentali accenni ad elementi del creato in forma di segni, che però, in virtù dell’andamento fluido, stenografico e appena abbozzato con cui sono tracciati, non si fissano mai in una struttura definita. Gli elementi dell’immagine oscillano sempre in una sfera intermedia tra riconoscibilità e indeterminatezza, tra certezza formale e incerto amorfismo, tra l’organizzazione compositiva e il contemporaneo scioglimento dell’apparenza dal vincolo della stabilità e della coerenza. Questa polisemia è già insita nella maniera pittorica di Raciti, che evidentemente deriva dalla libera e rapida manualità dello schizzo, e si profonde in virtuosismi e improvvisazioni, giocando con l’evocazione di apparizioni fluenti, indefinite, frammentarie e apparentemente casuali, con la tensione tra aree aperte e zone più dense, tra spazi diffusi che tendono ad arretrare e forme significanti più accentuate, tra l’evidenza visiva dei segni e l’indifferenza delle strutture, tra la delicatezza dei linearismi simili a sottili filigrane e la vistosa presenza di macchie isolate che tendono a solidificarsi, e che Raciti predilige disporre sulla superficie in aree decentrate, asimmetriche, creando una deliberata irregolarità. I dipinti di Raciti sono testimonianze di un procedere intuitivo e sensibile, in virtù del quale la distribuzione delle componenti dell’immagine risponde a necessità istintive, interiori, e respinge qualunque pianificazione normativa, qualunque legge che provenga dall’esterno. Raciti agisce secondo il “principio della necessità interiore” di cui parlava Kandinsky. Anche le modalità di esecuzione che Raciti impiega affermano questo principio antisistematico, poiché anche qui agisce qualcosa di incalcolabile nell’espressione, che è straordinariamente agile, flessibile e fluida, legata a un sensibile intuito per lo sfumato, per le sottigliezze del disegno e della pittura, che determina anche l’uso del colore; Raciti predilige tonalità leggere, eteree e immateriali, e solo sporadicamente le intensifica qua e là, con una pennellata svelta e flessuosa, generando effetti di libera casualità. Anche se questa descrizione può far pensare a uno stile pittorico che si avvicina all’informale, alla pittura d’azione o gestuale, una simile interpretazione sarebbe fuorviante, poiché Raciti non è un esponente né un discendente della pittura informale. Pur ammettendo che l’artista abbia fatto tesoro di esperienze artistiche legate al gesto rapido, incontrollato e alla libera trama della pittura, basta uno sguardo alle sue opere per accorgersi come esse siano dominate da un diverso spirito, da un diverso controllo del mezzo, e per comprendere come ciò che esteticamente salta all’occhio come il frutto di un impeto violento, fulminante, eruttivo, in realtà è il risultato di un’emozionalità mirata e di una precisa intenzione creativa. I dipinti di Raciti non sono il deposito di un’energia inconsapevole e indiscriminata, sono piuttosto la trascrizione di intimi umori e stati d’animo, di una sensibilità contemplativa, di immagini mentali, di invenzioni fantastiche, legate a un impulso creativo costantemente filtrato da un’intenzione propriamente artistica. Perciò Raciti non affida l’impulso creativo all’azione inconsapevole di un “automatismo psichico”, per quanto siano ravvisabili, nelle sue opere, tracce di surrealismo astratto, e lui stesso nella sua conversazione con Panizza ha dichiarato di rifiutare la cieca furia del gesto: “Io intendo per la rapidità non un fatto gestuale, ma un’intuizione, uno scatto, che mi mette in sintonia diretta con l’opera, che tecnicamente può essere condotta più o meno velocemente. Oggi comunque la mia stesura è rallentata”.

L’impressione di un’attuazione fenomenica riguarda anche quelle opere di Raciti in cui la presenza di singole forme che emergono visibilmente o di costellazioni di forme che interagiscono e dialogano tra loro si riduce a vantaggio di un trattamento pittorico più uniforme, come nella serie dal titolo Mistero. Certamente, anche in queste opere si scorgono elementi formali più definiti, ma sono riassorbiti in una densa e complessa trama cromatica, dipinta con estrema finezza, che percorre lo sfondo del dipinto, e da questo continuum le forme affiorano sfocate, imprecise, oppure si confondono con l’atmosfera nebulosa che le avvolge, da cui solo alcune sembrano svincolarsi. Ancor più di molte soluzioni stilistiche del passato, queste opere sono permeate da un’atmosfera romantica, che caratterizza soprattutto i pastelli degli ultimi anni, ma pervade anche i “Misteri”, i quali evocano impressioni suggestive, irreali, atmosfere incantate che richiamano associazioni con opere e motivi romantici, come l’invocazione al superamento della morte negli Inni alla Notte di Novalis, l’ineffabile infinità del cosmo di Monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich o il misterioso e lieve suono dei corni che Carl Maria von Weber, nella sua opera Il franco cacciatore, ha concepito come espressione del fiabesco. Tutte le qualità che connotano lo struggimento romantico si ritrovano in queste opere di Raciti, presentimenti e significati inesplicabili, non meno dell’espressione di profondi moti dell’animo e la fuga nei remoti territori dello spirito e della fantasia.

Se per concludere volessimo cercare una formula interpretativa che riassuma in un unico concetto la poetica e l’estetica di Mario Raciti, allora proporrei il termine “sublimazione”, ma in un’accezione lievemente diversa da quella impiegata da Sigmund Freud, che l’ha introdotta nella teoria psicoanalitica. Se per “sublimazione” si intende la trasposizione di un contenuto spirituale, immateriale, riposto e ineffabile, in virtù della quale esso assume una forma materiale, esteriore, familiare e comprensibile, allora è proprio questo il processo creativo che si verifica quando prendono corpo le opere di Mario Raciti.

(Interiorità e sublime nei dipinti di Mario Raciti, in Mario Raciti, La pittura dell’ignoto, Skira, Milano, 2010)