Antologia critica > Giuseppe Marchiori

Il bianco di Raciti, in catalogo della mostra personale, Galleria Annunciata, Milano, 1971

Due riferimenti, già proposti da altri critici, per la formazione di Raciti, due casi affini, anche se tra loro dissimili, sono quelli, persino ovvi, di Twombly e di Novelli. Sono due casi da rivedere tuttavia col necessario distacco, per quanto rappresentino un momento tipico dell’arte del dopoguerra, già indagato e studiato, allo scopo di individuare gli elementi grafici e pittorici più caratteristici, dei quali i due artisti si sono serviti per scrivere il loro messaggio: Twombly, affidandosi al linguaggio automatico; Novelli, motivando la propria visione nell’ambito di una raffinata cultura, in cui l’originario carattere mitteleuropeo si confonde e si integra con l’esperienza surrealista francese.

In Twombly c’è la spregiudicatezza dell’arte americana, che si esprime al di fuori di ogni tradizione europea, lasciando sulla tela bianca o sulla carta la testimonianza-documento di un attimo, che dovrebbe comprendere attraverso la sintesi irrazionale del gesto una comunicazione autentica e segreta, espressa nella vitalità del segno e nel commento sensibile del colore; in Novelli, c’è l’inquietudine del pensiero, il riflesso di una intensa esperienza letteraria e poetica; il gusto di chi ha vissuto in ambienti diversi, lontani dal proprio paese; le contraddizioni illuminanti di una complessa formazione culturale.

I due artisti si esprimono con gli stessi mezzi, ma rivelano le profonde divergenze della loro natura e della loro vicenda avventurosa di cosmopoliti.

Ben altre invece sono le origini e le componenti dell’arte di Raciti, al di là di quel facile riferimento iniziale. Raciti ha una propria storia, meno appariscente, ma che va collocata tra i “fatti” di questi ultimi dieci anni, anche se il pittore rifiuta ogni esibizionismo di carattere pubblicitario, discostandosi così dagli esempi del costume moderno, dai metodi ben noti e sperimentati per la scalata al successo.

Raciti ha preferito dipingere (e nel suo caso il verbo riacquista il suo pieno significato e il suo valore antico) e portare avanti, con severo impegno autocritico, il discorso pittorico (senza concessioni e senza tentazioni sperimentali) verso quella maturità d’immagine che le sue opere del 1970-71 sicuramente documentano, per il controllato intuito e la nitida sensibilità. (A me piace adoperare questi vocaboli caduti in disuso nella critica attuale, proprio come Raciti adopera il tocco e la macchia di colore e il segno tracciato sulla tela con la semplice e dimenticata matita.) Il problema maggiore (se proprio si può parlare di “problemi” nell’arte di un pittore che agisce con tanta spontaneità) può essere quello di trovare il giusto rapporto tra spazio bianco e figurazione con la stessa naturalezza della parola e del gesto.

Un “prima” dunque non esiste: c’è soltanto l’attitudine, la disponibilità dell’artista a esprimersi in modo diretto, senza l’intervento di quelle correzioni o di incertezze spesso riscontrabili anche nei dipinti più arditi.

L’artista deve mettersi nella condizione pura di comunicare. Altrimenti il quadro (oso scrivere questa parola distrutta dall’applicazione intensiva delle tecniche moderne) si distrugge in virtù dell’automatismo, diventato, anziché positivo, negativo per un concorso di circostanze spesso difficilmente identificabili.

Il punto fondamentale è dunque questo: l’esistenza di un momento, in cui tutte le facoltà dell’artista si associano e si concentrano, nella totalità del loro potere di rivelazione poetica. A me sembra che Raciti abbia raggiunto più volte questa condizione ideale.

Il colore di base è il bianco, e il bianco condiziona i segni della matita e le stesure e i guizzi colorati. (Anche Novelli tendeva verso il bianco per le nivee composizioni in stile secessionista o per gli aerei fantasmi del “liberty”, ma per lo più come spazio per le frasi, gli alfabeti strani, i segni crittografici, ai quali affidava i propri segreti messaggi, le allusioni a una vita dello spirito allucinante e turbata.)

Raciti mira soltanto alla pittura, senza commenti di parole scritte. Rinuncia alle lettere che servono a costruire le figure di un mondo sibillino, come faceva Novelli con le sue piramidi e le sue scacchiere. Raciti disegna, non scrive. E le matasse di linee hanno lo stesso valore dei toni rarefatti accennati sul bianco, come note essenziali di un tessuto grafico-cromatico, che assomiglia alle nuvole stracciate nel ciclo spazzato dal vento. Non si può cercare nell’arte di Raciti la costruzione razionale, l’ordine degli elementi di una pagina architettata in precisi termini spaziali. Raciti non obbedisce a schemi preconcetti: si rivela nella integrità dell’immagine immediata, nel libero flusso di un procedimento inventivo, che fissa e sottolinea alcuni punti di valore, sui quali segni e colori si organizzano come per un moto naturale e spontaneo.

Si stabilisce così una sorta di continuità fantastica vibrante ed attiva in ogni sua parte e si ha subito l’impressione di un dialogo aperto, che avvince, poiché nasce da una condizione spirituale assolutamente autentica.

Rivedendo alcune opere di Raciti del 1963, si ha la misura del suo svolgimento, che segue il ritmo di una serie di successive chiarificazioni interiori, da certe premesse surreali, che riconducono al più segreto mondo liciniano. È un rapporto che si scopre, con qualche sorpresa, in molti giovani d’oggi, capaci, nonostante le mode collettive, di libere scelte.

Licini è un nome che ritorna e che s’impone, come sempre, in silenzio, al di fuori dei miti novecenteschi. Anche Raciti gli deve qualcosa: un insegnamento indiretto, sull’esempio dei valori morali, che sono impliciti nella sua opera.

C’è un nuovo modo d’interpretare se stessi, un nuovo tipo di analisi, che avvicina all’essenza, e che si riassume nei simboli, in sostituzione delle parole. La pittura di Raciti può definirsi un viaggio verso domini interiori da esplorare e da rivelare.

E il diario dei fatti, delle occasioni, dei sentimenti, dei pensieri, delle sensazioni si svolge nei quadri, come sfogliando le pagine di un libro scritto con le sigle e coi colori, in un linguaggio allusivo, di cui è evidente la chiave surreale.

Talora si tende alla decifrazione del sogno, poiché anche dei sogni conviene parlare, a proposito dei quadri più segreti di Raciti, per l’atmosfera velata, per quel “bianco infinito”, che allontana dalla realtà.

Ogni cosa diventa apparizione, rapido brivido luminoso, traccia, frammento nello spazio dilatato in cui si proietta come sullo schermo inquieto della fantasia.

Licini aveva per le sue meditazioni pittoriche lo spazio dei cieli notturni, sui quali Amalasunte, angeli ribelli, aquiloni apparivano come meteore.

Raciti ha rinunciato ai personaggi. Il personaggio è lui stesso, con la sua vita, coi suoi gesti, con le angosce, gli incubi, gli amori, gli abbandoni, gli entusiasmi, le stanchezze, che significano più di ogni forma conclusa.

Raciti è l’interprete di se stesso con la magia dei segni, con la finezza sensibile dei toni, perduto nell’armonia del bianco infinito, che è il colore della sua fantasia.

(Il bianco di Raciti, in catalogo della mostra personale, Galleria Annunciata, Milano, 1971)