Antologia critica > Fabrizio D’Amico

C’è un punto – e può ridirlo un’ora del giorno che nasce o si spegne; un itinerario lontano di un paesaggio: un attimo indecifrabile di una vita –, un punto della nostra coscienza instabile e incerto, ove scivola la ragione, e i sensi vaneggiano; una zona limbale e prelogica dove tutto è sospeso fra realtà e sogno, fra memoria e progetto, tra flagranza e inganno. È, quel punto, un luogo della nostra esperienza che possiamo aver molte volte incontrato, e che pure tendiamo a sottrarre all’autocoscienza perché tutto, lì, fluttua rischiosamente un passo al di là dell’ultimo nostro possibile controllo.

Quel luogo è, da sempre, il luogo della pittura di Mario Raciti; che ha cercato la sua verità lì “dove componenti diverse si fondono in consonanze”: in quelle terre di confine – della cultura, o dell’istinto – dove la luce, che quella pittura fonda, non è più interamente casta e innocente, ma non sa ancora d’essere stata sfiorata dal peccato della vita, dove il sogno è lì per toccare l’ansia dell’incubo; dove la favola possiede ancora la sua astratta distanza dalla ragione, ma già teme quell’antica memoria che la trasporrà in mito – che altro non è se non la favola dove l’animo adulto ricovera i dilemmi irrisolti dell’esistenza.

E Mitologie, appunto, intitola, non per caso, Raciti il suo lavoro più recente: disteso ormai anch’esso in un lungo tragitto d’anni, dal 1983 ad oggi. “Ove mi pare – scrivevo recentemente delle Mitologie, in un testo che si sforzava di ripercorrere in sintesi tutta l’operosità del pittore, dal ’63 in avanti – che non valgano ad incrinare la spazialità allagante e instabile che Raciti s’è dato nel corso degli anni Settanta per la sua egemone misura formale, le grandi ’figure’ che adesso attraversano, solcano, scandiscono quegli stessi spazi tramati dalla luce e da essa sola, quasi miracolosamente, sostenuti e commossi. Non molto di diverso: più avventurati, un tempo, erano i sogni di Raciti; più propense a vivere l’arcana vita del simbolo le odierne figure; ma, esse pure, sono infine non altro che ritmi di pallido colore sul campo della tela – non altro che fantasmi ammantati di nebbia, di silenzio e di bianco nell’aurora perenne, e felice, di questa pittura.” Ancora credo, come ieri, che il nocciolo di questi dipinti, la loro più densa e specifica qualità formale, risieda nella sapienza degli atti formativi che Raciti nel tempo ha selezionato per la sua pittura. Ma son lieto di questa occasione di parlare più accosto alle opere recenti e recentissime che qui a Roma egli oggi presenta, per dire anch’io – dopo che già altri l’hanno indicato: e fra essi Quintavalle, Caramel, Elena Pontiggia – anche di quella loro seconda natura, meno limpida e meno rasserenata, che pure le intesse. Ed è quell’assalto che l’indistinto, il notturno, l’ignoto portano alla coscienza, e i cui portati affiorano oggi in Raciti più distintamente di ieri, prendendo apparenza di sguardi, di sagome, di filanti traiettorie, di gesti interrotti.

Sente, il pittore, il loro arrembante salire a figura, il loro portar ombra, e più affannate scritture, e vortici di segni più crudi, fin sulla soglia della sua luce. Li avverte come una spia d’un maggiore coinvolgimento, d’una maggiore drammaticità che preme ai margini dell’opera. Ma che essa – appunto – rimanga ai suoi margini, o che vi entri solo dopo aver deposto ogni senso di più nitido racconto, ogni trama narrativa, ogni più precisamente delineato portato di comunicazione, mi par necessario ancora adesso ribadirlo: per continuare ad assicurare a questa pittura quella vocazione a scoprire con la luce, e con essa soltanto, uno spazio eternamente in bilico fra l’innocenza del pensiero e la compromissione dell’esistenza.

(Presentazione, in catalogo della mostra personale, Galleria Giulia, Roma, 1990)