Antologia critica > Elena Pontiggia

“Più che dipingere facce e ali, mi piacerebbe dipingere l’alitare delle ali, cioè il vento dello sbattere delle ali”, dice Mario Raciti. Ed è facile capire come questa dichiarazione di poetica si traduca nei suoi quadri: superfici dove la matita accenna, più che disegnare, e il colore preferisce annunciarsi piuttosto che esprimersi.

È una rarefazione, una volatilità particolarmente evidente nelle carte, ma intrinseca anche alle tele, proprio perché non è una questione di tecnica. È una questione di stile. Ogni opera di Raciti è così segreta, sottocutanea, che verrebbe voglia di togliere il velo che sembra coprirla, per mettere finalmente a nudo forme nette e colori decisi. Ma quel velo non copre la pittura. È la pittura.

Quel bianco steso sul bianco, quei colori diluiti e disciolti, quelle linee senza corpo, quelle macchie o quei grovigli cancellati sono lì, con tutta la loro nervosa debolezza, a richiamare la dimensione dell’in­visibile. Con una differenza fondamentale rispetto all’as­sioma di Klee (“L’arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile”): per Raciti l’in­visibile, imprigionato nella trama del quadro, deve mantenere tutta la ritrosia e il mistero di quando sfuggiva allo sguardo. Perché il problema non è intuire ciò che non si vede e riportarlo alle forme solite, normali, riconoscibili. Cioè assimilarlo a noi.

Il problema è conservare l’invisibilità dell’invisibile. Conservare l’ambiguità come ambiguità, proteggere i valori sfuggenti delle sfumature, del bagliore, dell’ombra. Illuminarli quel poco che basta per poterli percepire, ma fermarsi sull’orlo delle ciglia, nel dubbio del miraggio.

La levità della pittura di Raciti, quel suo carattere sommesso come un canto a bocca chiusa, quell’indecidibilità di ogni suo segno rispondono a questa ragione profonda. Dare immagine all’inconscio, ai silenzi, ma senza tramutarli in ritornelli. Scegliere per i propri quadri un linguaggio fatto di pause, di allusioni, di esitazioni, di punteggiatura senza parole.

Annidata in questa fragilità, che può assumere un volto scherzoso o soave, c’è tutt’altro che una aggiornata leggerezza, così come i nostri anni la intendono o la simulano. C’è piuttosto una sensibilità inattuale, nutrita di cultura letteraria e filosofica, che da anni ha scelto la Mitteleuropa come patria d’adozione, ma è sensibile anche alle suggestioni del pensiero francese.

È dalla psicologia di Freud e di Jung che le opere di Raciti hanno appreso il valore emotivo delle immagini, la consapevolezza che nell’inconscio ogni forma può assumere infiniti significati e ogni cosa coincide con tutte le altre, soprattutto col proprio contrario. È dalla poesia di Rilke che hanno appreso il continuo dialogo tra visibile e invisibile. Da lì hanno intuito quell’universo di figure angeliche o demoniache, che abitano un Weltinnenraum, uno spazio interiore che si confonde con lo spazio cosmico. Da lì, anche, hanno ripreso quel concetto di presenza-assenza che non significa opposizione, ma sintesi. Perché ciò che esiste prende significato da ciò che non c’è, e “i viventi sbagliano se delineano confini troppo chiari”.

E ancora, parlando di riferimenti filosofici, bisognerebbe ricordare la scuola francese, dagli studi di Lacan sul rapporto tra psicoanalisi e linguaggio, ad Artaud e Bataille, alla loro riflessione sul mito e i significati del corpo, tra erotismo e crudeltà. In molti disegni di Raciti l’evocazione di un organismo smembrato (o di un segno smembrato) nasce, anche, da queste radici.

Ogni immagine del resto si configura nell’opera di Raciti come l’espressione di una crisi. Una crisi non individuale o psicologica, ma storica, legata alla consapevolezza, tutta moderna ma di derivazione romantica, che la realtà è molto poco “reale”. E che il linguaggio non esprime la verità, ma la nasconde.

Il segno più intenso è quello imperfetto, incompiuto. Un’ironia malinconica si sprigiona allora dalla tela, dove l’incertezza del segno è tranquillamente esibita, perché è in quell’incertezza l’unica forma di attendibilità.

A queste ascendenze culturali, mentali, Raciti accompagna però una vocazione istintivamente pittorica. E se da un lato il suo lavoro si muove in una dimensione più pensata che espressa, dall’altro non approda mai al concettualismo, e rimane fedele all’immagine. In questo senso dunque si pone in una posizione isolata, anche rispetto alle esperienze artistiche che per certi aspetti o in certi momenti gli sono state avvicinate.

Vulnerabile e diafana come una traccia, eppure ostinata nell’intenzione figurale; grafica più che pittorica, eppure inscindibile dal pennello e dal colore; lontana dal naturalismo quanto dalla pura grafia; immersa in una sensualità coltivata e insieme capace di originale immediatezza, la pittura di Raciti tiene conto di diverse tendenze espressive, senza risolversi in nessuna.

Forse la presenza-assenza di tanti suoi titoli è, anche, una dichiarazione di poetica.

(…)

Così, dunque, ci appare il lavoro di Raciti, sul crinale difficile che separa la visione dall’invisibile, la rivelazione dall’oscuramento. Nei suoi segni friabili e indecisi si rispecchia quel poco che possiamo percepire della realtà che ci circonda. Si rispecchia la crisi moderna della conoscenza. Ma si rispecchia anche una strana felicità.

Una felicità di segni e dello sguardo che sarebbe inspiegabile, se non ci ricordassimo che “L’impossibilità di sapere, l’inefficacia del voluto, l’inadempienza del senso sono, le fortune della poesia”.

(La visione e l’invisibile. Opere su carta 1963-1988, catalogo della mostra personale, PAC, Mazzotta, Milano, 1989)