Antologia critica > Daniela Ferrari

Mario Raciti, Una o due figure, 2016

Mario Raciti. Pittura come voce, gesto come canto

“Il canto, una necessità nel bisogno, cantando” (Novalis).

Mario Raciti, nato a Milano, classe 1934, inizia a esporre fin dagli anni Cinquanta.

In bilico tra la rimembranza e il riferimento al canto poetico, l’allusione al mito e a simbologie antiche, i suoi dipinti ci conducono in un universo pittorico rarefatto. Lieve e intensa, la sua è una pittura fatta di segni leggeri, sospesi nello spazio compositivo come sogni accennati, e di cromie delicate, accese da tocchi intensi, risuonanti sulla tela come le note alte in una melodia.

Si è frequentemente insistito sull’aggettivo lirico, per descrivere il fare lieve e sottile, il gesto, e la sensazione di leggerezza che inevitabilmente trasmette l’operare di Raciti. È, quella della liricità, una connotazione certamente corretta, nella quale però l’artista teme talvolta di restare imprigionato.

Agguerrito dal punto di vista dialettico, attento al significato delle parole, egli le soppesa, sempre.

Preferisce definirsi un visionario, Mario Raciti, che certo sposa la teoria del grande letteratoThéophileGautier, scrittore e poeta,“perfetto mago in lettere francesi” – come lo ebbe a definire Charles Baudelaire –, quando affermava: “Il pittore reca in sé la sua pittura, e la tela serve da intermediario fra lui e la natura” , evidenziando il ruolo fondamentale dell’intuizione e della visione interiore, quell’“eco interiore che trasale di fronte al bello e al grande” , secondo le parole di Eugène Delacroix. A tale voce interna, canto dal profondo, l’artista non può che rimanere fedele, o forse succube.

L’artista, padrone e ordinatore delle sensazioni esteriori, possiede potenzialmente la facoltà di aggregarle e dispiegarle sulla tela. Il segreto, se un segreto esiste, è racchiuso nel codice, in quella tavola sinottica dei simboli che Raciti ha elevato a significanti fin dagli anni Cinquanta: il tunnel, la giostra, il viaggio in luoghi improbabili e sconosciuti, inadatti forse, le vele galleggianti nell’aria, le finestre, i fiori.

Decifrare gli impulsi esterni, che connotano la propria mitologia privata, scegliere quelli che combaciano con i valori interni e trovare il codice d’accesso al dominio dell’unità è il meccanismo che approda al termine ultimo della creazione artistica: l’opera. Questo processo, che appare così banalmente sistematico, si svuota di quella dimensione poetica nella quale siamo abituati a collocare chiunque si occupi di arte. Ma sistematico è l’atteggiamento dell’artista, sotto certi aspetti. La disciplina rigorosa che lo accompagna nel lavoro, lo studio che non conosce deroga, puntuale, ininterrotto e quel senso di vuoto, come una colpa, per una seduta mancata al cospetto dell’indicibile, un appuntamento non rispettato con la propria arte. Raciti è ben consapevole quanto la capacità immaginativa dell’artista sia un universo di potenzialità che nessuna opera riuscirà a mettere in atto, compiutamente, ma solo a lumeggiare. Si scontra con quel mondo reale, di cui facciamo esperienza vivendo: un mondo che risponde ad altre forme di ordine e di disordine. Ma lo scontro è più un dibattito aperto, dove l’artista è imputato e avvocato difensore, conclusosi con la conferma che il suo reale è sempre, irrimediabilmente autre. E che l’antinomia, il dubbio, il dissidio e l’ossimoro sono gli strumenti del suo fare, così come lo sono la tela, i colori e i pennelli, un fare che egli definisce dolorosa gioia.

È questa l’attitudine attraverso cui l’arte afferma se stessa e difende la necessità di continuare la ricerca, sino a profondità sconosciute, di esperienze straordinarie, tese verso la pienezza, e una perfezione che è sempre una preda sfuggente.

Il sentimento di completezza e di equilibrio tra pensiero, mezzo, tecnica, sensazione e sua trasformazione in forme percepibili, associato al desiderio di armonia tra il concreto dell’opera e il pensiero che l’ha mossa, rimane uno dei nodi cruciali della rappresentazione, a prescindere dal mezzo espressivo scelto.

Ogni quadro è una domanda e l’affermazione nell’opera, nonostante l’arte si riconosca sconfitta di fronte allo sconosciuto sarà possibile finché l’artista ascolterà e asseconderà questa attrazione verso l’invisibile. Rainer Maria Rilke, poeta amatissimo da Mario Raciti, scrive poco prima della morte: “Quel che c’è di terribile, nell’arte, è che quanto più vi ci addentrate, tanto più vi sentite impegnato a tentare il limite estremo, il quasi impossibile.”

Raciti sembra interrogarsi sul limite del proprio spazio interiore e spirituale con intensità e quasi timore del concetto d’infinito, ancora come Rilke quando scrive il verso “L’orizzonte più vasto non è in me?” . E l’immagine che si materializza è quella del Viandante sul mare di nebbia, il celeberrimo dipinto di Caspar David Friedrich (DerWandererüberdemNebelmeer, 1818, Amburgo, Hamburger Kunsthalle).

In una recente conversazione con l’artista è emerso il concetto tedesco di Innerlichkeit, ben articolato nel saggio dedicatogli da Klaus Wolbert e opportunamente intitolato Interiorità e sublime nei dipinti di Mario Raciti. Wolbert punta un cono di luce sull’attitudine emotiva di natura romantica, la quale pone l’artista in una “disposizione contemplativo-sentimentale che comprende l’intera gamma della sensibilità soggettiva”. È, in effetti, con uno spirito romantico che Raciti si accosta ai temi universali che alimentano e popolano il suo mondo pittorico. Si tratta però di un romanticismo alla luce dell’oggi, come dimensione dello spirito, un romanticismo che ha fatto i conti con l’evoluzione del pensiero, non dimentico delle inquietudini che scaturiscono dai recessi più profondi, disvelati dalla teoria psicanalitica.

Come poter superare l’afasia, riuscire a conquistare in pittura ciò che solo la musica può? Raciti non fa alcun mistero sulla sua predilezione per la lirica, per Wagner e Mahler in particolare. Egli considera la musica in antitesi con la pittura, poiché non ha un luogo definito; al contrario può sconfinare in luoghi inusitati. Lo spazio della musica, che necessita della dimensione temporale, non è rappresentabile eppure l’artista, pittore, immagina se stesso come un direttore d’orchestra che traccia segni illeggibili nell’aria, segni senza deposito, i quali, se trasfigurati divengono suono e se evocati raffigurazioni. Per questo i suoi dipinti non sono adatti alla rapidità della visione, ma hanno bisogno di tempo, di una predisposizione a lasciare che le immagini si compongano, che le cromie chiare vengano distinte lentamente dai nostri occhi anche nelle minime gradazioni tonali, che la luce si stagli nell’ombra ed emerga nel gioco delle velature.

Più corposo il bianco, raggrumato in certi punti, vale come rigurgito della materia che affiora sulla superficie della tela. Nella serie ultima, che ha per titolo Una o due figure, le pennellate scure con un’evidenza quasi corporea sono attraversate da una figura chiara, fantasmatica. Si ha sempre l’impressione di essere in bilico tra un’astrazione del gesto pittorico che non afferma altro se non sé stesso e la volontà, quasi celata, di rappresentare un corpo, sempre mentale. Si tratta di una carnalità franta, che prende forma, con un colore quasi metallico, traslucente, e diviene riferimento anatomico con lo stesso principio delle macchie sul muro di Leonardo da Vinci.

Riconoscere un brano anatomico o individuare un gesto, sono aspetti che quasi lusingano l’artista, il cui intento è conteso tra la volontà di dispersione del corpo e la voglia di affermarlo. Egli non rinnega il fatto che un’immagine possa costituirsi da sé, senza una prefigurazione, ma come gratificazione della pittura stessa, come se la figura si realizzasse nonostante l’azione azzeratrice del pittore. E in questa dissipazione attorno al nulla, che molto deve alla conoscenza della filosofia heideggeriana, in una sedimentazione di vuoto, pittura e silenzio, ecco che un subitaneo gesto accelerato, come fosse preda di uno scatto della mente, si trasforma in un guizzo il quale si ripercuote nel segno: appare il colore, che mette in deroga l’affermazione del nulla.

Ancora Rilke:

E se un giorno questo nostro fare
e tutto ciò che ci accade sembrasse un nulla, estraneo
tanto che paia vana la fatica
di crescere di là dalla misura
delle scarpe infantili – : …

Con questa domanda eterna e universale l’artista incede. Strumenti d’indagine del pittore sono il segno e la materia cromatica i quali, alla stregua di suoni, parole, musica e versi, accompagnano l’incessante interrogarsi nell’universo del proprio credo estetico.

Inattuale e inclassificabile è la sua pittura all’interno dei percorsi conclamati e delle correnti a lui coeve. Molti sono i gradi di separazione tra l’arte di Mario Raciti e quella dei colleghi della sua generazione. Con una forma di resilienza, rispettosa dell’altrui fare, persegue nella sua forma espressiva che poco si adatta alle tendenze parallele al suo percorso artistico: sono evidenti la divergenza, l’incompatibilità con i principi che regolano la cosiddetta Pittura pura o analitica; il dialogo muto, perché inutile, con l’arte concettuale; e anche – paradossalmente – l’inconciliabilità con un dipingere che sia esclusiva energia espressa, informale o gestuale.

Appare particolarmente adatto citare, per concludere, alcuni versi di Friedrich Nietzsche dai Ditirambi di Dioniso.

Soltanto un pazzo!
Soltanto un poeta!

[…]

“Tu, il pretendente della verità?” così schernivano.
“No! Soltanto un poeta!
Un animale, astuto, predone, furtivo,
che deve mentire,
che consapevolmente, volontariamente deve mentire,
avido di preda,
la maschera variegata,
a se stesso la maschera,
a se stesso la preda,
questo il pretendente della verità? …

Soltanto un pazzo! Soltanto un poeta!
Soltanto uno che parla variegato,
che dietro le maschere del folle straparla variegato,
rampicante su falsi ponti di parole,
su arcobaleni di menzogne
tra falsi cieli
vagante, strisciante…
Soltanto un pazzo! Soltanto un poeta!

[…]

così io stesso un giorno precipitai
dalla mia follia di verità,
dalle mie brame di luce,
stanco del giorno, malato della luce,
abbasso precipitai, nella sera, nell’ombra,
da un’unica
assetato e riarso
(rammenti ancora, rammenti, ardente cuore,
come allora avesti sete?):
ch’io sia bandito
da ogni verità!
Soltanto un pazzo! Soltanto un poeta!…