Antologia critica > Claudio Cerritelli

Mario Raciti, Edizioni Rex Built-In, Pordenone, 2001

1. (…) È – dunque – nei primi anni Sessanta che Raciti approfondisce l’intuizione di quell’immagine iniziale, il valore dell’oggetto perde visibilità e svanisce davanti agli occhi fino a diventare trasparenza, luce aerea, memoria rarefatta del vissuto, traccia di qualcosa che occupa lo spazio come pura vibrazione.

(…) Gorky, Licini, Novelli sono fonti di ispirazione, come lo sono del resto le magie di Klee e le risonanze di Kandinskij, pittori ideali che segnano i sentieri della pittura che il giovane artista intende percorrere, con candore e trepidante misura.

Quello che conta, in questi anni di apertura verso le “prime forme” della visione, sono i movimenti di andata e ritorno che Raciti concede a se stesso, senza esitazione, con la coscienza di compiere quel “viaggio verso l’ignoto” che è senza dubbio l’impegno più veritiero del suo essere pittore, totalmente pittore.

Affiora sulla superficie la libertà del segno che si muove sotto le urgenze più diverse, inoltre prendono corpo macchie trasparenti, percorsi interrotti, prefigurazioni di un paradiso perduto oppure progetti involontari di spazi sospesi.

Spesso Raciti affida ad una ragnatela di fili il suo mondo senza dimensione, privo di prospettive rassicuranti, dove l’io vagante si spinge ai margini della tela o del foglio, lontano da un centro possibile anche quando entra in scena creando punti di riferimento apparenti: fari, teleferiche, antenne, sonde e ambigue presenze che disorientano lo sguardo e non lasciano in pace la mente.

La pittura degli anni Sessanta è questo eterno fluire del segno che avvolge il vuoto nella sua trama, ritirandosi tacitamente entro un recinto di pensieri assorti, in un tunnel d’angoscia, o nell’immagine di una porta oltre la quale stanno presenze improbabili e spiritelli venuti dall’aldilà.

Il sentimento che segna lo stato d’animo di queste opere è l’esigenza di libertà, l’ansia di liberare le manovre dell’occhio dagli schemi della rappresentazione, sconfinando nell’idea di un cosmo rovesciato, dove si cammina nel cielo e non per terra, e qui si incontrano strani personaggi vestiti di colore.

Raciti sente il dominio delle opposizioni, inizia a congiungere valori diversi, la luce e l’eclissi, il paesaggio e i suoi fantasmi, l’inizio e la fine del tempo, la presenza e l’assenza della memoria, polarità intese come dialettica necessaria alla vita delle forme pittoriche. Dalla fine degli anni Sessanta in poi si afferma un ciclo poetico legato alla “sparizione” dell’immagine e alla sua ritrovata visibilità, una stagione espressiva chiamata “Presenze-Assenze”, in cui Raciti ritrova il valore soggettivo del pensiero creativo che si confronta con la traccia del tempo storico.

2. È difficile dire che cosa rappresentino queste immagini sospese sul punto di incontro di differenti identità, anche il pittore non sa precisare la scaturigine delle forme fluttuanti, dipinte in modo dissociante sulla superficie, con un respiro spaziale che coinvolge tutto, anche i frammenti meno appariscenti.

Il fatto è che al mistero indicibile dello spazio Raciti affida una ricerca di oltre un decennio, un’interrogazione che attraversa tutti gli anni Settanta e si porta fin dentro il periodo successivo. Le tele di questo periodo sono fondamentali nella storia del pittore milanese, ne segnano il comportamento in modo inequivocabile, proprio perché avvicinano il senso del dipingere a quella zona inesplorata, lieve, segretamente allusiva, dove le cose distanti si avvicinano, le materie si fondono, le forme incerte si affacciano verso nuovi orizzonti. L’impressione è che tutto ciò che sembra svanire, in effetti, ha lunga durata, s’impone come significato dell’opera. (…) Per avvertire nel modo più intenso possibile il “viaggio verso l’ignoto” bisogna seguire le “Presenze-Assenze” di Raciti fin verso il 1982-1983 quando la luce evanescente dei sogni si carica di oscurità, le forme diventano più drammatiche e la leggerezza del vuoto viene minacciata da una più accentuata forza costruttiva dell’immagine. Si tratta di un momento in cui lo spazio rischia di essere saturo, di addensare al suo interno visioni, apparizioni e miraggi con una tensione espressiva che spinge l’artista verso un cromatismo più acceso. Fare pittura diventa impegno carico di inquietudini, di umori dolenti e venati di malinconia più di quanto non facessero pensare le prime tele di questo fortunato ciclo pittorico. E la ragione di questo diverso sentire sta nel bisogno di trovare nuovi stimoli, di scuotersi da un torpore immaginativo staccandosi dallo spazio conosciuto per arrivare ad una diversa alchimia del colore: un differente nutrimento dello sguardo.

Tra il 1983 e il 1985 nasce infatti un nuovo ciclo di ricerca, un’ulteriore visione che non significa una frattura irreparabile con i precedenti fatti cromatici ma un diverso modo di far affiorare le cose dalle cose. La serie delle “mitologie” segna un sentimento primario dell’immagine tornata a volare in campo aperto, disposta a smaterializzarsi nella luce, ad agire senza essere condizionata da linee di demarcazione dello spazio rappresentabile.

In effetti, il segno torna a solleticare la superficie, a farsi filamento che sfiora il corpo delle forme, ne registra i palpiti e le oscillazioni, sottoponendo l’immagine al proprio impulso vitale. Le “Mitologie” sono cariche di segni che dialogano con il colore e nel colore ritrovano l’eco del primordio, esse sono spesso frenate dalla materia pittorica che, tuttavia, dà sostanza alla loro fragile apparizione. Il mondo poetico di Raciti viene da lontano e non si può mai anticipare, ogni previsione è fuori luogo, l’unico aspetto che si può intuire è una vena espressiva che si muove tra gli opposti: abita superfici luminose eppure ci parla del profondo, desidera fortemente la vita ma è l’idea della morte a condurre verso l’abisso. (…) Muovendosi sul filo di queste situazioni esistenziali la pittura affronta silenziosamente la presenza della luce che s’impadronisce del mondo trasformandolo in un luogo di sembianze, di fantasmi, di parvenze illimitate.

Le immagini che ne derivano possono essere considerate esercizi di avvicinamento al pensiero creativo che riflette sui limiti rappresentabili, ben sapendo che non v’è peggior cosa che chiudere l’orizzonte per sentirsi al riparo. L’aspetto sconcertante è che Raciti non chiede alla pittura di trovare un significato appagante ma esige l’opposto, “il tormento del non trovare”, perché il vero senso del cercare sta nella capacità di ascoltare il lento fluire delle forme senza avere certezza del responso. In questo senso le “mitologie” sono figure dell’essere, sempre in bilico tra lo spazio dell’origine e quello dell’ultimo respiro, tracce spirituali di un continuo rivolgersi all’interno del proprio divenire, segnali poetici di uno stato d’animo alla ricerca dei misteri della conoscenza.

3. La maturità di Raciti coincide con la fervida stagione degli anni Novanta e si tratta di una qualità sempre più alta della visione, lasciando che lo stile abbia un ruolo di raccordo dei differenti stati d’animo del dipingere. L’atteggiamento di fondo non muta, l’artista interroga il senso nascosto delle cose, apre la mente verso ciò che sta dietro le apparizioni, dietro le presenze insondabili che occupano lo spazio slittando dal figurale all’astratto, come palpiti di luce che svaniscono e riaffiorano ad ogni istante.

La pittura è un viaggio alle radici dell’essere, il suo esperimento mira ad un continuo risveglio dell’immagine, l’impulso creativo è un cammino verso le fonti del sacro, in prossimità di quella vertigine spaziale che permette di coltivare il dubbio conoscitivo come religione dell’esistenza.

Nel processo di rivelazione della forma Raciti realizza visioni luminose ma anche stati di sprofondamento, torna spesso nella mente il sentimento ossessivo dell’origine, dove tutte le immagini generano se stesse. Si tratta di un’autentica germinazione che non ha pause, ripercorre le fasi della creazione, si muove senza garanzie: dal nulla alla vita del colore, dal vuoto all’essenza della materia. Non basta il filo della memoria per seguire questi racconti che vagano nello spazio, essi amano situarsi ai margini del foglio, sembrano chiamare da lontano ciò che non è alla portata dell’occhio, cose che non si decidono ad apparire.

Lo stato d’animo è quello di un viandante che guarda un punto dello spazio e, in quel medesimo istante, sogna di essere da un’altra parte. Tale è il destino del pittore che dipinge la superficie come luogo della profondità ma anche della sospensione. L’atto di abbandonarsi al colore è il punto di incontro tra la possibilità di immaginare una posizione nell’universo e quella di smarrirsi in molteplici punti di fuga. In questo senso, ogni lettura descrittiva delle opere (tele e carte, olii e pastelli) risulta approssimativa, infatti a differenza dello spazio aereo e luminoso delle “mitologie” ci si trova immersi in pensieri che amano l’oscurità, il silenzio, lo stato di attesa, lo sguardo socchiuso, la meditazione che riflette solo su se stessa.

Se le mitologie spingevano la presenza-assenza dell’immagine verso orizzonti carichi di allusioni, il ciclo denominato “Mistero” placa quella fioritura di segni e di tracce per assecondare una diversa fisicità del colore. In effetti si riscontra una profonda continuità di intenti, pur nella diversificazione dei cicli di ricerca, e questo non può che confortare l’impressione di una coerenza nella differenza.

La luce sembra inghiottire le cose e restituirle nella loro pacata sonorità, lontane dal rumore del mondo, purificate dal controllo della mente che inclina verso la malinconia. Si tratta della malinconia attiva del genio pittorico che vuol assorbire tutto e non lascia vedere molto, uno stato d’animo che dall’esperienza del mondo lascia affiorare presenze minime eppure fortemente sensibili, che seducono lo sguardo con l’aria estatica dei verdi, dei rosa, degli azzurri.

“Mistero degli spazi sotterranei – ha scritto Raciti – Mistero dei cordoni ombelicali e dei viaggi, del segno che condensa e si disfa, del colore dei luoghi ultimi, del nostro canto sospeso, larve del nostro domani.”

Più che un titolo convenzionale che indica la presenza ineffabile dell’opera la parola “Mistero” esprime la condizione dell’artista che interroga lo spazio, che valuta il rischio di insidie possibili e di conquiste illusorie, sollecitando il corpo del colore attraverso tracce filiformi, ipotesi di figure che svaniscono appena le si conoscono, forme annullate dalla loro stessa presenza. La forza della parola Mistero sta anche nell’indicare l’impulso del cuore, l’adesione immediata ad un bagliore che scuote la luce monocorde della memoria, il tormento che si trasforma nell’atto felice della creazione, il piacere di non raggiungere mai il significato di ciò che si vede. In questa distanza dal significato come valore permanente della forma Raciti costruisce lo spazio della durata, vale a dire la possibilità di continuare ad esplorare l’atto di guardare le cose, atto irriducibile alle cose medesime, atto che diventa inesauribile solo se commisurato alla capacità di non scegliere mai riferimenti definitivi o, anche solo, persistenti.

Con questi pensieri che vengono dall’emozione Mario continua a vivere il mestiere di pittore come pura vocazione visionaria, ricerca assoluta dell’altrove, cammino costruito senz’altro sostegno che quello della propria determinazione creativa.

Queste osservazioni (che quasi sempre la critica si astiene dal fare, talvolta per pudore, in altri casi per convenienza) sorgono spontanee al cospetto di ricerche come questa perché segnalano la dignità, il riserbo e la qualità di un lavoro che bisogna saper avvicinare e conoscere nel senso lirico e profondo della poeticità. Poesia, dunque, parola difficile da pronunciare nella sua relazione con le altre arti, tuttavia nel caso della pittura di tipo evocativo è possibile immaginare un comune destino.

Certo, Raciti è consapevole che questa identità poetica è spesso inspiegabile, è una traccia segreta su cui è difficile trasferire la verità del segno e del colore, tuttavia è un destino degno di essere vissuto, soprattutto quando la pittura tenta analogie con la poesia attraverso la purezza delle forme e delle luci.

La dimensione temporale e musicale sembra avvicinare ulteriormente questi due mondi, se spesso infatti la poesia si basa sui puri ritmi della lingua anche la pittura supera la presenza degli oggetti e indica le forme essenziali dei vuoto. Aria, terra, fuggevolezze, armonie, fughe, smanie, angosce, e altri prolungati silenzi abitano la pittura come istanti lirici che diventano la traccia del colore, non una cosa qualsiasi ma quel determinato sentimento dello spazio. Ed è in questa dimensione che oggi Raciti va muovendosi con la leggerezza di chi sa che il “viaggio verso l’ignoto” non ha soluzioni possibili ma trova la sua ragion d’essere nella sospensione di tutti i significati, dunque nel desiderio di abbracciare con la pittura il mutevole divenire della vita.

(Mario Raciti, viaggio verso l’ignoto, in Mario Raciti, Edizioni Rex Built-In, Pordenone, 2001)